Riflessioni in punta di penna sulla regia de Il Mantello e Amici (3/3)

20140313_163802-1[PARTE: 3]

La genesi di Amici, con queste premesse, non è stata meno sofferta. Qui mi mancava ogni riferimento e, dopo un breve scambio di opinioni (telefonico) con il compositore, il M° Angelo Bellisario, ho deciso di affidarmi unicamente al mio “sentire interiore” per raccontare, per la prima volta, questa amara ed ironica storia. Amici racconta del violinista Tony Appacher che, pur morto, è costretto a soggiornare ancora per un mese sulla terra; non sapendo dove stare, chiede aiuto a coloro che, in vita e alla morte, si sono dimostrati amici: il liutaio Amedeo Corti, il direttore del Conservatorio Mario Tamburlani, la prostituta Gianna ed infine Don Raimondo, suo ex compagno di scuola e sacerdote che gli ha impartito l’estrema unzione prima di accompagnarlo al cimitero. Inutile dire che nessuno lo vuole tra i piedi e che, nei modi più vari, lo allontanano dalle loro case costringendolo a fuggire lontano…

Una storia amara vestita di momenti ironici e sarcastici che si dipana in ben quattro quadri  e due monologhi, tra case e pianerottoli, strade e giardini; come risolverla dal punto di vista scenografico con i soliti problemi di budget?

Per descrivere sul palcoscenico un interno e un esterno casa poteva bastare qualcosa che fosse univocamente riconoscibile, una porta. E porta è stata: da sola, sostenuta da due appoggi a delimitare quel “dentro” e “fuori” che servivano al nostro protagonista. E le case? Non erano tutte uguali: quella dei coniugi Corti non poteva essere come quella di Gianna o come la canonica di Don Raimondo… Occorreva intanto definire gli elementi scenici indispensabili a definirle: un divano, un mobiletto sul quale poggiare qualche elemento caratteristico (anch’esso da “vestire” diversamente in ognuna delle case) e poco altro. Divano sul quale venivano messi teli diversi per le varie circostanze.

Poi andavano distinte le case: ancora una volta le video proiezioni di Pierpaolo Magnani mi sono venute in aiuto proponendo per ognuna delle abitazioni una “parete” affrescata o con carta da parati, mentre per i monologhi di Tony, delle immagini sfumate segnano luoghi reali senza definirli troppo trasformandoli così in “luoghi dell’anima”.

Gli strumenti per raccontare quella storia c’erano tutti: occorreva decidere come raccontarla; le chiavi di lettura, come sempre potevano essere infinite ma quella che mi convinceva di più nasceva dalla consapevolezza che, dentro quel racconto del 1954, ci fosse un Buzzati già disilluso, amareggiato e quindi più cinico anche se ancora non rassegnato. Così, pian piano, sono cresciuti i personaggi di questa storia: la signora Corti e le sue sensazioni legate ad una possibile venuta di Tony, oggetto di ironia da parte del marito Amedeo fin quando non se lo trova davvero di fronte ed è costretto ad affrontarlo nell’imbarazzo più completo, alla ricerca di plausibili scuse per declinare la richiesta dell’amico; il direttore del Conservatorio, Mario Tamberlani, pieno di sé e ipocrita a tal punto da usare il cane come scusa per la mancata ospitalità a Tony… E Gianna, la prostituta: una ragazza acqua e sapone nonostante la professione, pulita dentro e sognatrice, romantica e ingenua quanto basta a renderla un “animaletto impaurito” alla vista di Tony, tutta istinto a tal punto da prendere il morto a “forbiciate” e poi pentirsi di quel gesto per la vittima assolutamente innocuo. Più complessa la figura di Don Raimondo, uomo di fede ma, per motivi non conosciuti, inviso al Vescovo e sotto controllo. Paura, dubbi, sensi di colpa costituiscono i leit motive della scena che lo vede in conflitto con se stesso, con i propri anche legittimi egoismi e poi, pentito, con un dolore profondo e insanabile perché Tony è definitivamente scomparso.

Anche per quest’opera mi serviva un finale “speciale”, qualcosa che raccogliesse davvero il messaggio che avevo trovato nel racconto proprio in quelle emblematiche righe finali che avevo trovato recitate da un grande attore in una riduzione radiofonica.

Ho scelto un’immagine onirica di un fantasma, un’ombra inquietante ma al contempo accogliente; un quadro di Gauguin (Madame la Mort) mi ha dato lo strumento più adatto sul quale quelle parole che avevo letto si stagliavano con drammatica potenza: “Per questo gli spiriti, quando si trattengono sulla terra, non vogliono vivere con noi, ma si ritirano nelle case abbandonate, nelle cappelle sperdute tra le selve, sulle scogliere che il mare batte, batte e lentamente di diroccano…”.

Per le voci, Raffaella Palumbo ha interpretato con grande sensibilità il ruolo della moglie di Corti, Dafne Tian Hui, con un’altra sostituzione “in corsa” ha interpretato, con garbo ed ironia, il ruolo di Gianna; Daniele Piscopo si è preso l’onere di interpretare Amedeo Corti; al baritono Stefano Trizzino il compito di dare voce e volto al direttore del Conservatorio Mario Tamburlani, cosa che ha fatto con grande senso della misura per evitare di scivolare nel grottesco, mentre al tenore Fabio La Mattina l’impegnativo ruolo di Don Raimondo che ha gestito con grande professionalità regalandoci momenti intensi e drammatici senza mai scivolare nel retorico. Ottima anche la performance di Javier Landete che ha saputo dare voce e interpretazione a Tony facendone un personaggio di grande umanità e sensibilità senza mai perdere quel filo di ironia che, in modo sottile, diventa sarcasmo di fronte all’indifferenza e all’ipocrisia dei suoi amici.

Adesso che le luci si sono abbassate su quella serata ( a proposito…. È difficile “inventarsi” le luci quasi in diretta, con meno di un giorno per provarle! Le luci sono importanti nell’economia dello spettacolo, ne determinano una parte significativa del successo e, devo dire, non ho avuto modo di studiarle come dovevo per poterle ottimizzare in entrambe le opere; un’omissione non colpevole che spero di rimediare in una eventuale prossima replica), resta la nostalgia di una bellissima esperienza condivisa con un cast di giovani cantanti che hanno saputo “creare” con me una serata di grandi emozioni dopo avermene regalate altrettante e forse qualcuna in più nei giorni delle prove durante le quali si è cementato, oltre ad un sodalizio professionale, anche una grande intesa a livello umano. Resta anche il rammarico che una simile esperienza e i frutti che ha portato, rischi di essersi chiusa in quella serata al Verdi: sarebbe un peccato e un’ingiustizia; un peccato perché ciò che è stato prodotto ha trovato l’apprezzamento del pubblico e non solo; un’ingiustizia perché tanto lavoro, tanta dedizione, tanto impegno, tanto entusiasmo sarebbero stati “bruciati” in una sola replica…

Un’altra sensazione mi porto dentro, e mi gratifica: quella di aver reso omaggio a Dino Buzzati nel modo migliore che potevo, di averlo proposto a coloro che non lo conoscevano in quella veste, di aver aperto una porta dalla quale altri potranno entrare per esplorare l’universo musicale del compositore bellunese accorgendosi che assomiglia molto agli altri che riguardano le sue diverse attività: pittore, poeta, giornalista, drammaturgo, scrittore. Universi nei quali, se ogni certezza sembra essere esclusa, la speranza trova sempre un suo spazio e il trascendente illumina, pur con una luce velata, il mondo degli uomini e delle cose.

 

* Compositore e didatta, docente di composizione e direttore al Conservatorio Statale di Rovigo. Lasciata la direzione , viene trasferito come Ordinario di Composizione al Conservatorio “G. Verdi” di Milano.
Tra le varie iniziative che caratterizzano la sua attività didattica spicca la pubblicazione di diversi testi di composizione ed analisi musicale. Nel campo della creazione, ha al suo attivo circa 250 composizioni di vario genere, di cui circa 95 sinfoniche e/o liriche. Dal 1986 è Direttore Artistico de “La Rotonda di S. Biagio”, dove ha invitato i maggiori concertisti italiani.

Link alle parti precedenti

PARTE 1 Riflessioni in punta di penna sulla regia de Il Mantello e Amici (1/3)

PARTE 2 Riflessioni in punta di penna sulla regia de Il Mantello e Amici (2/3)

Stefano Mecenate

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