Riflessioni in punta di penna sulla regia de Il Mantello e Amici (1/3)

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Questa volta, svestiti i panni del critico musicale, mi presento in qualità di regista per provare a raccontare una emozionante esperienza com’è stata quella di mettere in scena due opere tratte da altrettanti racconti di Dino Buzzati.

La prima, Il Mantello, su musica di Luciano Chailly,  è stata messa in scena per la prima volta nel 1960 al Maggio Musicale Fiorentino e riproposta solo nel 1994 al teatro Massimo di Palermo; la seconda, Amici, libretto e musica di Angelo Bellisario, in prima assoluta.

L’idea di mettere in scena opere su libretti di Buzzati è nata dal desiderio di far conoscere di questo grandissimo artista del XX secolo alcuni aspetti meno noti come appunto il suo rapporto con la musica lirica. Un rapporto che lo vede protagonista di ben cinque opere per le quali ha realizzato non solo i libretti ma, in alcuni casi, anche le scenografie: Ferrovia soprelevata: Racconto musicale in sei episodi, (messa in musica da Luciano Chailly, fu rappresentata la prima volta al Teatro Donizetti di Bergamo il 1º ottobre 1955); Procedura penale, Ricordi, Milano 1959 (musica di Luciano Chailly); Il mantello: opera in un atto, Ricordi, Milano 1960 (musica di Luciano Chailly); Era proibito, Ricordi, Milano 1961 (musica di Luciano Chailly); Battono alla porta, Suvini-Zerboni, Milano 1963 (musica di Riccardo Malipiero), Premio Italia.

Condividere questo progetto con Marcello Lippi, direttore artistico per la lirica del Teatro Verdi di Pisa, è significato iniziare un’avventura ricca di importanti esperienze e di inenarrabili emozioni. Una sorta di “salto mortale” in un universo poco esplorato com’è il mondo di Buzzati lasciandosi pervadere da quelle sensazioni che, uniche, potevano condurmi all’anima dell’Autore per cercare di cogliere gli elementi significativi della sua produzione.

La prima designazione delle due possibili opere da mettere in scena, Il Mantello e Procedura Penale, è stata piacevolmente “sconvolta” dalla proposta pervenuta dal M° Angelo Bellisario*: «Ho un opera inedita in due atti che ho realizzato su un racconto di Dino Buzzati, Gli AMICI». Una scommessa nella scommessa: mettere insieme due lavori, uno “classico” l’altro inedito che parlano di Buzzati! Valutata la qualità della proposta, il primo grosso impegno è stato quello di lavorare all’interno e all’intorno del materiale delle due opere: per Il Mantello, partendo dal racconto per poi approfondire la realizzazione drammaturgica (Teatro Convegno, 1960, regia Enzo Ferrieri), fino alla riduzione a libretto su indicazioni di Luciano Chailly che, spogliato il protagonista, Giovanni, delle parole, riduce il suo cantato ad una serie di mugolii e delle vocalità di quarti di tono da cantarsi come in rantolo, con un Arioso su una serie enneadecafonica (ossia di 19 suoni). Per Amici, invece, si trattava di partire dal nulla poiché ancora mai rappresentata, e quindi dare a  quella musica e a quelle parole un “vestito” adeguato.

Il giovane cast mi era stato affidato direttamente dal direttore artistico, il M° Lippi, e conseguentemente non conoscevo nessuno di loro salvo uno che avevo ascoltato in un’altra delle opere da camera proposte nella stagione; il direttore/pianista anche. Occorreva quindi trovare un punto di incontro tra tutti i protagonisti di questo progetto per giungere ad una conclusione soddisfacente: pensavo, o temevo, di trovare più difficoltà e invece si è creato da subito un clima di  fiducia, entusiasmo e volontà di partecipare attivamente anche oltre le rispettive competenze. Avevamo tutti ben chiaro che, con i ristrettissimi budget a disposizione, solo un forte lavoro di squadra avrebbe consentito di portare a casa un risultato dignitoso; e a noi, in realtà, dignitoso non bastava.

Era necessario dare un corpo ad entrambe le opere: scene, o almeno elementi scenici, costumi, luci erano ingredienti indispensabili, specie per la seconda delle opere, Amici, che contemplava ben sei quadri diversi con location ben distinte tra loro.

In qualità di regista mi sono trovato a studiare come raccontare queste bellissime storie: avevo sempre in mente i rispettivi racconti ed ogni volta che mi trovavo a rileggerli (credo di averlo fatto decine di volte) mi rendevo conto di quanto ognuna di quelle parole fosse scolpita nella pietra per l’importanza e la intensità che si portava dentro. Non potevo umiliarle con una messa in scena approssimata o ridicola, non volevo che quelle emozioni che mi avevano regalato non passassero al pubblico che le avrebbe ascoltate e viste sul palcoscenico.

I pochi mezzi a disposizione non mi permettevano voli pindarici e del resto, come avevo avuto modo di scrivere mille volte in qualità di critico musicale, possono bastare pochi segni incisivi per definire uno spazio, un’emozione, una storia.

La storia de il Mantello, se da un lato era circoscritta dentro una stanza, davanti ad un tavolo, aveva un “prima” e un “dopo” che in qualche modo dovevano essere raccontati. Il prima era il regalo che la Morte aveva fatto al soldato di rivedere per l’ultima volta la madre e il suo desiderio di fare in fretta per raggiungerla così da concedersi un tempo più lungo prima del definitivo distacco; il dopo, era lo strazio di quel distacco e il doloroso, lento allontanarsi dai propri affetti . Dentro questi estremi, gli universi interiori dei personaggi: la mamma, la sorella Rita, la fidanzata Marietta, e Pietro, il fratellino. Ognuno di loro si interfaccia con protagonista, Giovanni, con modalità e linguaggi diversi, ognuno con la propria “anima”.

Stefano Mecenate

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