Quando Franz Lehár, compositore austriaco di origine ungherese, mise mano a “La vedova allegra” non avrebbe certamente sospettato che la stessa sarebbe poi divenuta l’operetta preferita di Hitler (sebbene nel periodo nazista vennero sempre sottaciuti i due librettisti ebrei.
La messa in scena di Aron Stiehl a tratti sembra riportare lo spettatore nel dodicennio nero: qualche costume (Franziska Jacobsen), qualche battuta o atteggiamento. Tutto velato, mai troppo evidente. Però lì, stillato, come quella goccia di retrogusto amaro nel dessert che non toglie, però, il gusto del dolce.
La scenografia (Nicola Reichert) è maestosa, leggera, spensierata: perfetti quadri, istantanee che fermano il momento e invitano a riflettere. Su cosa? Da un lato la leggerezza della vita e, dall’altro il continuo gioco degli intrighi politici.
Si vive di superficialità e di glamour… è che come se i sentimenti rimanessero bloccati dietro ad una coltre di eterea ironia.
L’operetta, ambientata a Parigi, parla del tentativo dell’ambasciatore di Pontevedro di far sposare la ricca vedova Hanna Glavari (Valda Wilson) con il conte Danilo (Marek Reichert). Un tira e molla, finte gelosie che però terminano nell’unione tra i due. In parallelo nasce un (non voluto) triangolo amoroso tra il Barone Mirko Zeta (Markus Jaursch), sua moglie Valencienne (Marie Smolka) e Camille de Rossillon (Sung Min Song). Meraviglioso il personaggio di Njegs (Gregor Trakis) che diventa il narratore e moderatore della serata, conferendo una ulteriore nota di ilarità. Come fare a non lasciarsi trascinare nel vortice delle discussioni sul finale o delle passioni d’amore.
Ulteriore chicca quando alcuni dei protagonisti passeggiano tra il pubblico: Danilo distribuisce i suoi bigliettini e offre Champagne a qualche donna, Hanna si avvicina a lui…
E, nonostante il cancan delle grisette fosse degno di Moulin Rouge, la potenza vocale del coro che è entrato in sala ed ha cantato ai lati del pubblico, l’ha fatta da padrone.
Elisa Cutullè