Il gruppo tedesco Staubkind festeggia quest’anno i suoi 10 anni. Nel 2004, il cantante leader del gruppo, Louis Manke, lascia Dresda e si reca nella capitale tedesca per fare della sua passione, la musica, la sua vita. Non parla di sradicamento, bensì di ineluttabilità della vita e dei cambiamenti.
Il nome del gruppo, Staubkind (= Figlio della polvere) riassume questo passaggio: a Dresda sono stati lasciati gli amici, la famiglia e la vita (la polvere) e a Berlino è nata una nuova vita, il gruppo (il bambino).
L’esperienza che un concerto del gruppo offre è unica: non si tratta di una star che sale sul palco, bensì di una musicista che racconta la sua storia di tutti i giorni: amori, speranze, delusioni, sogni e tanta voglia di vivere. Sono 3 ore di concerto che ripropongono sul palco la filosofia di vita del gruppo: è la prospettiva dalla quale si osserva la vita che fa la differenza. E si lascia il concerto con la sensazione di aver acquisito nuovi amici e di aver fatto parte di una qualcosa di unico. Non è un caso.
Abbiamo incontrato Louis in occasione del suo concerto a Colonia per parlare con lui dei suoi ricordi, della sua musica e dei suoi sogni.
Festeggiate i 10 anni di vita: Cosa è cambiato per voi?
Sono cambiate moltissime cose.
Dieci anni fa, il nostro primo concerto è stato a Berna, in Svizzera. All’epoca avevamo appena pubblicato il nostro primo CD e quando ci hanno chiesto il bis, non avevamo altre canzoni nel repertorio. Non abbiamo titubato e ricantato tutte le canzoni dall’inizio. Ora invece, con 10 anni di vita musicale come gruppo alle spalle, diventa difficile selezionare i brandi: vorresti cantarli tutti, ma devi selezionare quelli più rappresentativi per te e per il pubblico.
Personalmente devo dire che anche io sono cambiato molto. Dieci anni fa ero molto più introverso, avevo molta paura quando salivo sul palco ed ero vittima della febbre da palcoscenico. Cosa non è cambiato in me è che, ancora oggi, non mi ricordo sempre tutti i testi. Ma sto migliorando.
Nonostante penso di poter dire che siamo un gruppo abbastanza stabile, è cambiata un paio di volte la struttura del gruppo. Siamo, ora con Dirk, al nostro terzo chitarrista. Gli altri due, Rico e Martin, ci hanno lasciati per motivi personali. Credo che, comunque, siamo un gruppo affiatato ed aperto che non rende difficile l’integrazione.
La storia del gruppo l’abbiamo raccontata attraverso foto e altri ricordi nell’edizione dell’anniversario: credo che riesca a offrire una buona panoramica di quello che siamo e come lo siamo diventati.
È bello anche aver potuto variare la nostra posizione di artisti: supporter di Unheilig con un pubblico di migliaia di persone e poi piccoli club, con le nostre band di supporto, in cui davanti a meno di mille persone puoi finalmente cantare più di mezz’ora.
Essere uno Staubkind è un modo di vivere per noi e per i nostri fan. Cero di accorciare le distanze con loro permettendo ad alcuni di loro di venire sul palco con me durante i nostri concerti o interagendo con loro sulla nostra pagina Facebook. Siamo complementari, penso.
Hai scritto diverse canzoni. Ce ne sono state alcune che hai visto più come sfida?
Ci sono due tipi di canzoni che possono essere prese come sfida: da un lato quelle che prendono una piega che non avevi previsto e che devi limare, affinché rientrino nel concetto dell’album e quelle che per cui c’è voluto molto tempo nella scrittura perché il contenuto non era facile da trasporre: Stille Tränen, Kleiner Engel e So Still sono canzoni di questo genere. C’è voluto tempo per conferire quel messaggio, quel tono, che permettesse ai sentimenti di non venire mascherati dalle parole.
A dire il vero sono molto contento del fatto che abbiamo sviluppato un concetto e non costruito sentimenti. È gratificante quando ti rendi conto che i fan , grazie alla tua musica, sono in grado di lasciare da parte la quotidianità e i problemi, chiudere gli occhi, ricaricarsi di energia e riprendere a vivere a pieno ritmo.
I vostri album iniziano con una voce narrante. Ce ne parli?
Nel primo album ero ancora io la voce narrante ma poi, quando ho sentito la voce di Christian Schulte, me ne sono innamorato e gli ho chiesto se gli andava di fare lui la voce narrante. È stato, fortunatamente d’accordo. Nei nostri album racconto la mia storia e mi serviva un osservatore esterno che la introducesse con un certo distacco. Nella mia mente la voce narrante doveva essere un vecchio saggio, seduto su una panchina di un monte solitario, che mandava il suo protetto nel mondo dandogli gli ultimi consigli prima di intraprendere il viaggio. E Christian ha reso questa mia idea tangibile.
Figlio della DDR hai lasciato Dresda e il tuo lavoro per la grande Berlino. Come è nata la decisione?
Io ho due patrie e due cuori. Mi trovo bene a Berlino ma Dresda e i suoi ricordi mi mancano e rimarranno un parte di me.
Come mai Berlino? A Dresda facevo già musica ma la possibilità di farla in maniera professionale mi venne data da Berlino ed ho colto l’occasione al volo. Non è che non amassi il mio lavoro a Dresda, è solo che amavo la musica molto di più e sentivo di potermi veramente dedicare solo ad una cosa. Così ho scelto la musica.
Già da piccolo cantavo nei cori. Prima nel coro dei pionieri (ma fui mandato via dopo solo 4 settimane perché i comportavo male) e poi in chiesa nel coro. Dopo la caduta del muro mi comprai una chitarra elettrica e incominciai a fare la mia musica.
Sono trascorsi 25 anni dalla caduta del muro di Berlino. Cosa è cambiato dal 9 novembre 19189?
Non molto tempo fa ho ricordato quei tempi con mia madre. Mi ricordo che il giorno della caduta del muro di Berlino ero in chiesa per le prove del coro. Appena due giorni dopo, assieme ad altri amici, siamo andati a Berlino per vedere con i nostri occhi. Era praticamente impossibile trovare un posto da dormire, ma, grazie agli appelli delle radio berlinesi che invitavano i cittadini a mettere a disposizione letti per chi era venuto da fuori, siamo riusciti a trovare un posto dove dormire. Ironia della sorte: ora che vivo a Berlino abito proprio a poca distanza dalla famiglia che mi ospitò all’epoca.
Sono cambiate molte cose. Anche il tuo gusto musicale?
Direi di sì. Prima ero molto più rocchettaro ora, con l’età, mi sono calmato. Una delle mie passioni immutate è però Slash: lo adoravo da prima e continuo ad andare ai suoi concerti.
È cambiato direi la mia percezione di musica: anche se determinati stili musicali non ce la faranno mai ad entrare nella mia collezione musicale, apprezzo e rispetto la gente che è musicalmente dotata ed in grado di creare buona musica.
Trovo però difficile per me andare ai concerti come puro spettatore, sarà la deviazione professionale: è raro che io riesca a staccare il cervello e lasciarmi avvolgere dalla musica. Sempre più spesso mi ritrovo ad analizzare cosa succede sul palco, coem si muovo gli artisti, che cosa fanno in determinati situazioni, come sono le luci etc.
Ma ciò non mi trattiene dall’andare ai concerti: la musica è parte integrante della mia vita.
Elisa Cutullè