Le sfaccettature della scrittura- incontro con Cristina Comencini

 

Regista, sceneggiatrice, drammaturga e scrittrice italiana, Cristina vive la scrittura 360°C. L’abbiamo incontrata lo scorso novembre a Villerupt, durante il Festival del Cinema Italiano, dove ha ritirato il Premio Amilcar de la Ville, ricevuto nel 2020.

 

Hai iniziato come attrice, ma ora sei principalmente regista e sceneggiatrice. Come vivi questi due ruoli? Ce ne è uno che preferisci?

Io ho fatto finta di fare l’attrice (sorride) in un film di papà per divertimento. All’inizio è vero, volevo fare l’attrice (l’ho fatta anche a teatro), però mi sono resa presto conto che non era la mia dimensione e che non riuscivo a lasciarmi andare completamente, come un’attrice deve fare. C’è una qualità dell’attore e dell’attrice che è quella di svuotarsi di sé e cioè di essere aperto ad essere riempito del personaggio e dalle indicazioni del regista. Oggi non sono più sceneggiatrice, perché, ad un certo punto l’ho abbandonata. Sono più scrittrice e regista, anche sei, per i miei film, mi occupo anche spesso della sceneggiatura.

 

Scrivi anche romanzi. Diverse delle tue opere sono state finaliste ai Premi importanti e due hanno anche vinto premi di riguardo. Come vivi il tuo ruolo da scrittrice?

Sono stata una scrittrice di romanzi ancor prima di essere regista e continuo a scrivere. Scrivere è un lavoro in solitudine completa.

 

Quando hai un’idea, un progetto, cosa ti spinge a decidere come renderlo vivo: scrittura, cinema TV?

Per me tutto, il lavoro, anche al cinema comincia dalla scrittura. Il cinema mi piace molto, mi piace l’immagine, anche se non mi definisco una regista di pura immagine, perché ho sempre dietro il racconto: attori, personaggi, dialoghi. Il procedimento della decisione su cosa fare è completamente diverso, per me non c’è mai un dubbio. Quando incomincio a scrivere un libro non so mai in che direzione vado, perché parto da un tema e comincio a scrivere, lasciando le cose a svilupparsi pian piano.  Per il film scrivo da sola solo il soggetto e poi, essendo il cinema un lavoro collettivo, chiamo altri a scriverlo.

La scrittura di un libro e di un film sono due cose completamente diverse che hanno in comune solo il fatto che si sta raccontando una storia, ma con strumenti completamente diversi.

 

E come si delinea il percorso dal romanzo al film?

L’ho fatto due volte: una volta con «La bestia nel cuore» (quello che mi ha dato più riconoscimenti in quanto candidato nel 2006 all’Oscar come miglior film straniero) e una volta con «Quando la notte», film più difficile in quanto la tematica era molto più complicata.

 

Hai curato la prefazione al testo «Elogio della Nonna» di Simonetta Robiony. Quale è il fascino di questa figura? Che rapporti hai avuto tu con le tue nonne?

Le nonne sono personaggi fantastici. Il libro di Simonetta centra proprio l’argomento: sono donne antiche, che non hanno avuto il privilegio dell’emancipazione (come le nostre madri o noi), ma hanno saputo coltivare, soprattutto quella di Simonetta, le loro personalità molto forti e tenere unite la famiglia. Sono donne che hanno una grande indipendenza, sia culturale che creativa. Le nostre nonne sono state per noi nipoti, credo, dei grandi esempi. Io ho raccontato il rapporto con mia nonna nel libro «Passione di famiglia», storia della mia famiglia materna.

 

Sei anche molto impegnata civilmente, sui temi relativi alla parità di genere. Cosa ne pensi della discussione, a livello europeo, della tematica di genere nella lingua?

Io non la chiamerei parità bensì differenza di genere. La parità è un fatto quasi necessario, mentre è proprio la differenza ad essere la cosa interessante. Per noi donne è importante la differenza, perché noi abbiamo una storia alle spalle (anche se ci ha emarginate) che è piena di creatività, partendo dall’educazione dei figli alle mille idee per affrontare la vita. Tutto questo porta le donne di oggi che entrano finalmente nel lavoro, che possono entrare nello spazio pubblico, ad avere un gigantesco bagaglio culturale che le permette di fare le cose in un modo diverso.

Quello che penso è che il linguaggio deve tenere conto anche di questo, senza però forzare: per i lavori, la femminilizzazione dei termini è molto importante. È un processo lento, in quanto una lingua viva non può essere cambiata integralmente e immediatamente.

 

Elisa Cutullè

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