Un elogio della “nonna” che rappresenta un effettivo elogio della femminilità, della forza e della dignità di ogni donna. Un esempio anche e soprattutto per il nostro mondo in cui abbiamo conquistato tante libertà e la nostra vita all’apparenza sembra più facile. Simonetta Robiony, giornalista e autrice, ci racconta della sua. La prefazione è stata curata da Cristina Comencini che in merito precisa “Le nonne sono personaggi fantastici. Il libro di Simonetta centra proprio l’argomento: sono donne antiche, che non hanno avuto il privilegio dell’emancipazione (come le nostre madri o noi), ma hanno saputo coltivare, soprattutto quella di Simonetta, le loro personalità molto forti e tenere unite la famiglia. Sono donne che hanno una grande indipendenza, sia culturale che creativa.”
Un percorso tra la narrazione e le foto: da cosa nasce questa scelta?
Con alcune foto in bianco e nero si è voluto solo caratterizzare una epoca, lunga perché mia nonna, nata sul finire del Novecento, è morta a 78 anni, con la contestazione studentesca in corso, le minigonne, la rivoluzione sessuale, i primi attentati che avrebbero portato poi alla lotta armata, una sorta di guerra civile da lei non vista.
Parità e differenza: che differenza c’è tra l’esperienza di tua nonna e la tua?
Una differenza enorme. Io non ho mai pensato di non avere un lavoro mio, autonomo, che mi permettesse, se lo volevo, di chiudere con un matrimonio infelice. Lei, invece, non ha mai lavorato: poteva contare su una ricca dote che, però, con la malattia di mio nonno è andata quasi tutta in fumo. Mia nonna quando, dopo un litigio durissimo, lasciò la sua casa, si sentì consigliare da suo padre avvocato di tornarci immediatamente perché avrebbe potuto essere accusata di abbandono del tetto coniugale e perdere il diritto di crescere i suoi figli. A me questo non poteva capitare. La nonna era una donna molto più forte di me, ma le leggi hanno vincolato anche lei. Io sono nata col voto alle donne, lei ha dovuto aspettare il dopo-guerra con il referendum tra Monarchia e Repubblica per poter votare. Da allora l’ha fatto sempre.
Inizi il tuo testo con “La nonna non mi ha mai raccontato favole”. Perché?
È vero. Da piccola non ricordo che qualcuno mi abbia raccontato favole. Neanche la nonna. Avevo una zia che mi leggeva un libro per ragazzini sui miti greci: mi piaceva molto ascoltarla. Le favole le ho lette da sola quando, a sette anni, ero in grado di farlo. E ne ho lette e rilette molte.
Quale è, per te, la definizione di “madre”?
Non esiste una definizione specifica di madre. Non mi convince neanche quella di uso comune che definisce la madre come <colei che ti ha generato> perché ci sono donne che adottano i bambini e sono altrettanto madri. Certo, il rapporto madre-figlio o figlia è il più tenace, viscerale e indissolubile che io conosca. Proprio per questo, fortunatamente in casi rarissimi, può arrivare perfino a provocare omicidi. Per ora in Italia non c’è una legge che preveda lo scioglimento di questo rapporto: lo <sfigliamento> non esiste. E’ la prova di quanto sia coinvolgente essere genitori ed essere figli. Così come la buona madre non c’è: si fa quel che si può per crescere al meglio i propri figli. C’è, invece, la cattiva madre, ma anche su di lei, prima di giudicarla moralmente, si dovrebbe sapere il suo stato di salute psichico, la sua educazione, i suoi valori.
Dedichi un capitolo quasi ad ogni membro della famiglia: c’è un membro che ti sta particolarmente simpatico o antipatico?
Mi è rimasto molto impresso per la sua simpatia nei confronti miei e di mio fratello più piccolo zio Arturo, un cugino della nonna. Aveva una bonomia naturale che lo rendeva ai miei occhi attraente. Medico militare aveva sposato per far contenta sua madre una donna frivola che lo tradiva stabilmente con cui aveva una relazione di quelle che si usavano allora. Si era poi separato e durante la guerra si era innamorato di una signora ebrea che aveva salvato dallo sterminio. Ma lei, una volta arrivata in Israele, non ha mai più voluto lasciare il paese e lui da militare non poteva lasciare l’Italia. Si vedevano quando potevano, ma si volevano molto bene. Da bambina la loro mi pareva una storia bellissima.
Napoli e la guerra: che influenza hanno avuto su tua nonna?
La guerra per mia nonna ha coinciso con la malattia del nonno: difficile dire cosa sia stato peggio. Certo la nonna perdeva la testa quando gli aerei gettavano bombe su Napoli, specialmente sul porto che era vicino alla loro abitazione, ma il nonno che aveva lentamente smarrito la ragione e l’uso delle gambe, è stato assistito da lei per venti tremendi lunghissimi anni. Cosa ha pesato di più per lei? Credo la malattia del nonno più che la povertà del suo dopo guerra. Eppure, neanche in quella situazione, ha lasciato il letto matrimoniale né ha mai smesso di amare Napoli, tanto che la cosa che più le piaceva era andarsi a sedere in uno dei caffè di Posillipo per guardare il panorama e il mare.
Rendi pubblici aspetti della tua famiglia: come ti senti e perché lo hai fatto?
Mia nonna era una persona sincera e diretta. Raccontava le cose come stavano. In ogni famiglia c’è chi appare migliore e chi peggiore. Lei non provava vergogna convinta che gli errori si dovrebbero non commettere ma che negarli non serve a nessuno. Ho solo seguito il suo insegnamento. Non fino in fondo, però. Qualcosa la ho taciuta per rispetto ai molti nipoti tuttora in vita.
E tua nonna paterna?
Ho appena scritto alcune pagine sulla mia nonna paterna, sollecitata anche dagli editori Fefè. Ma con questa nonna non ho mai vissuto, quindi la conosco più superficialmente. Certo era all’opposto della nonna materna che mi ha insegnato il rispetto di sé e il mantenimento della dignità. L’altra nonna era una donna semplice, senza cultura, di buon carattere, spiritosa. Su di lei tutto pareva scivolare senza lasciare traccia. Nel caso ci fosse una nuova edizione di questo Elogio della nonna, queste pagine potrebbero stare in appendice come un contro-elogio, nonostante riconosca che dalla nonna paterna ho imparato a non disprezzare chi non ha studiato, pur continuando a considerare la cultura, che non è nozionismo, lo strumento principale per l’emancipazione. Della donna, naturalmente, ma anche dell’uomo.
Elisa Cutullè