Quasi 60 anni anni di Maria

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Quando, nel 1949  Jerome Robbins suggerì a Leonard Bernstein di portare in scena una versione moderna della storia di Romeo e Giuletta, che già aveva fatto infiammare tanti cuori, questi rimase affascinato dell’idea e incominciò a prendere vita, nelle loro mente, il concetto di «East Side Story». Decisero di affidare il libretto a Arthur Laurents, che vantava un’ampia esperienza a Broadway sia come scrittore, regista che sceneggiatore. Tuttavia, a causa degli svariati impegni dei protagonisti, dovette passare ancora qualche anno, prima di riprendere il progetto in mano. Nel 1955 il conflitto divenne un conflitto tra americani e portoricani e avvenne il cambio del nome da «East Side Story» a «West Side Story»  e si incomincio a lavorare sul serio al progetto, coinvolgendo anche Stephen Sondheim per i testi delle canzoni. Due anni di lavoro che culminarono con  6 mesi intensivi di prove (da febbraio a luglio 1957) portarono all’anteprima del National Theatre di Washington il 19 agosto e alla prima assoluta del 26 settembre al Winter Garden Theatre di New York.

Il musical venne accolto più che bene dal pubblico, ne fu creato un film nel 1961 e, da allora, a quasi 60 anni di distanza, continua ad essere rappresentato presso i maggiori centri del musical a livello mondiale.

Come fa una storia, che, a sua volta si rifà ad un conflitto ancor più antico, a continuare ad essere ancora presente, attuale e seguita? Il segreto è nell’idea di impostare la storia sul conflitto razziale, non religioso né elitario: nonostante la globalizzazione e i continui sforzi a portare l’eguaglianza tra i popoli, continuano, ancora oggi, ad esistere, situazioni di conflitto che costringono gli abitanti di una paese ad emigrare e a cercare una nuova patria, il che,  riaccende nuovamente il conflitto.

 

Stjin Celis,  direttore del balletto dello Staatstheater di Saarbrücken aveva già fatto trapelare, qualche anno fa, che desiderava affrontare un progetto che esulasse dalla pura danza. La sua scelta è caduta, con ingegno, su uno dei musical che si presta maggiormente all’integrazione e alla fusione di opera, recitazione e balletto.

Infatti, qualcuno tra il pubblico della premiere del primo ottobre,  ha storto il muso nel sentire alcune parti interpretate da cantanti d’opera e non da cantanti di musical. Apparentemente (perché un manco inesistente) per la mancata leggerezza di alcune arie. Sarebbe bastato fare una piccola ricerca sulle interpretazioni del musical finora, sarebbe rimasto senz’altro molto sorpreso. Le canzoni furono accolte a braccia aperta dal mondo del Jazz: nel 1959 il pianista André Previn pubblicò un album che conteneva otto dei brani in versione jazz mentre Oscar Peterson nel 1962, registrò, con il proprio trio, una versione jazz dell’intero musical. E, infine, nel 1985, per dimostrare l’effettiva duttilità del testo, fu proprio Leonard Berstein a  dirigere una versione in studio del suo Musical che vide, come protagonisti Kiri Te Kanawa nel ruolo di Maria, Josè Carreras in quello di Tony e Tatiana Troyanos nel ruolo di Anita. Tre icone nel campo nella musica classica, o no?

Nella versione di Saarbrücken il ruolo di Tony è stato affidato a Michael Pflumm, già presente su diversi palcoscenici operistici tedeschi mentre a due membri femminile dell’ensemble, quelli delle due protagoniste femminili: Herdìs Anna Jonasdottir (Maria) e Judith Braun (Anita).

La scenografia di Jann Messerli si è presentata semplice e fortemente evocativa: essenziale e minimalistica al massimo con pochissimi accessori, focalizzava sulla struttura interna per permettere alla storia di svilupparsi attorno. Le luci di Fred Pommerehn e i video di città e vedute all’alto di Philipp Contag-Lada, trasformavano questa struttura, conferendovi vitalità ed energia, facendo rivivere la vita nelle strade di New York, con i suoi pregi i suoi tranelli. Catherine Voeffrey sembra, volutamente, aver optato per un’atemporalità di abbigliamento. Streetwear senza ombra di dubbio per i membri dei Jet e degli Shark, e classica spensieratezza per gli abiti di Anita e Maria: l’abito sottolinea, ma non entra in primo piano, perché gli spettatori rimangono concentrati su quello che avviene in scena. Beh, non sempre forse: infatti quando Elisabeth Wiles entra lateralmente cantando «Somewhere», il pubblico la segue nel suo percorso lungo le file e invidia chi è seduto in prima fila perché l’artista si ferma lì a completare l’immaginifico viaggio musicale.

Anche Celis, nella sua rivisitazione delle coreografie,  compie un viaggio dell’atemporalità e continua attualità dell’opera: intermezzi con movimenti classici che si alternano a Street dance, non in contrapposizione, bensì in perfetta integrazione, perché interpretati dai ballerini con passione maestria.

E il pubblico vuole dimostrare l’apprezzamento, interrompendo, più volte, con fragorosi applausi. Qualche purista è irritato, lo trova irriverente. I protagonisti, invece, vedono la manifestazione del pubblico come apprezzamento del proprio lavoro: alla fine sono tutti in scena, con facce stanche ma felici, illuminate a 360° gradi di allegria.

Una storia in cui amore e odio, vita e morte  dimostrano che l’uno non può esistere senza l’altro e che la vita va vissuta in ogni singolo momento anche per questo…perché, come anche cantato in «America», il tutto dipende dal punto di vista da come si affronta un qualcosa.

Chi ha voglia di vivere questa avventura e canticchiare  (in testa) i classici come  Maria, Tonight, I feel Pretty, si deve  dare una mossa: anche se lo spettacolo sarà in cartellone ancora fino ad Aprile, i posti disponibili non sono più tantissimi.

E una visione bernsteiniana della vita, con il touch sarrese, non guasta mai.

 

Elisa Cutullè

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