Ultime opportunità per ascoltare questa particolarissima Turandot che vede regista, scenografo e costumista un apparentemente “non addetto ai lavori” come Angelo Bertini.
Angelo Bertini ha dimostrato di possedere, parallelamente alla sua indiscussa professionalità come medico, una altrettanto indiscussa professionalità sia come regista che come scenografo dando vita ad un’opera ambientata in una “Pechino, al tempo delle favole” come indicato nel libretto di scena e come Puccini ha voluto per raccontare, sotto forma di fiaba, gli imperscrutabili misteri della vita e dell’amore per i quali da sempre aveva cercato inutilmente una risposta.
Compito non facile dar vita ad una Turandot originale ma fedele ai dettami del Maestro, capace di andare oltre l’iconografia più classica o la più dissacrante revisione senza tuttavia perdere il senso profondo di ognuna delle scene proposte e all’interno di esse di ognuna delle parole pronunciate dai cantanti. Bertini ce l’ha fatta, e alla grande; coadiuvato da un ottimo Marco Balderi, che ha saputo interpretare con fedeltà e passione la complessa e sofferta partitura creando entusiasmo sia nell’Orchestra del Festival che nel cast che ha risposto ottimamente alle sue sollecitazioni e da un Valerio Alfieri, che ha “dipinto” egregiamente le luci creando quelle emozioni che sono alla base di una messa in scena di qualità. Supportato dall’esperienza e dalla generosità della Fondazione Cerratelli nella persona di Diego Fiorini e Floridia Benedettini che hanno saputo realizzare con sapienza i costumi ideati da Bertini. Ce l’ha fatta dando una lezione sia a chi, con la “puzza sotto al naso” lo aspettava al varco, sia a chi, superbamente, dichiara di avere l’esclusiva di certe messe in scena in virtù di fantomatiche “doti” innate o acquisite.
Prima di andare a conoscere meglio questo “dilettante-professionista”, vale la pena ricordare che, le due ultime repliche, hanno visto la presenza di nuove voci, a partire dalla soprano americana Lise Lindstrom che ha proposto una “Principessa di gelo” diversa da quella che la grande Giovanna Casolla ci ha fatto conoscere nelle recite precedenti: “Isolata dal mondo – ci dice la Lindstrom – al tempo di Puccini l’Oriente è una metafora potentissima di questo isolamento, deve fare tutto da sola: imparare a amare, capire da sola che cosa rappresenta il potere e il ruolo della compassione, della dolcezza, nella sua vita. E’ ancora un mostro, se la si guarda in questo modo?“.
Insieme a lei, Lorenzo De Caro è stato il nuovo Calaf, mentre a Serena Farnocchia, una dolcissima Liù che abbiamo apprezzato nelle precedenti recite, si sostituirà Alessandra Meozzi, in qualche modo “nata” all’ombra del Pucciniano prima di prendere il volo per esperienze in altri teatri anche internazionali. Invariato il resto del cast che ricordiamo brevemente: l’imperatore Altoum Marco Voleri, Timur Ing Sung Sim, Ping Park Joung Min, Pang Nicola Pamio, Pong Francesco Pittari. Un mandarino Claudio Ottino. Ricordiamo anche l’ottimo lavoro svolto da Sara Matteucci,Maestro del Coro voci bianche.
Andiamo adesso ad approfondire la conoscenza con Angelo Bertini:
Quando ha incrociato per la prima volta Turandot? Cosa ti ha portato a dare di quest’opera questa interessante lettura?
Ho sempre seguito l’opera, fin da bambino, perché mio padre era un grande melomane oltre che amante della musica. Molte serate a casa mia con amici dei miei genitori le ho trascorse ad ascoltare al pianoforte le musiche di Puccini, ma il ricordo più emozionante che ho è la visione della Turandot di Sylvano Bussotti (credo fosse l’edizione del 29.mo Festival Puccini) che fu per me una rivelazione. Un’opera che non si finisce mai di conoscere davvero, che cresce con il nostro crescere non solo cronologico ma interiore, che parla con un linguaggio profondo e incantato.
Nonostante abbia intrapreso altre strade professionali non ho mai smesso di coltivare la passione per l’opera e lo studio del pianoforte. Questa Turandot è la rielaborazione di una mostra che tenni a Camaiore nel 2007 dal titolo “Ipotesi Turandot” nella quale era già presente il tema della gabbia e il richiamo alle avanguardie dei primi anni del Novecento.
Gli studi sull’opera mi hanno suggerito la necessità di evidenziare la predisposizione di Puccini a sperimentare nuove vie per restare al passo con i tempi: ecco quindi la scelta di ambientare l’opera nel periodo delle avanguardie dei primi anni Venti del Novecento – dall’Art nouveau all’Art deco – periodo che amo particolarmente.
Nel simbolismo dei personaggi, i tre mandarini sembrano avere un ruolo centrale nella drammaturgia pucciniana; cosa ti ha portato verso questa lettura originale e, in qualche modo, anticonvenzionale?
Tutta l’opera è giocata sul dualismo: un eterno contrasto tra segni opposti: tramonto-alba; notte-giorno, vita-morte, bene-male; si tratta però di un dualismo che si manifesta essenzialmente nel carattere dei personaggi, ben delineati, senza sfumature psicologiche, dal carattere prettamente antirealistico come è necessario che sia in un racconto favolistico e come si andava delineando nel gusto mitteleuropeo da cui Puccini trasse ispirazione.
La rigidità del Puppenspiel l’ho individuata proprio nel carattere delle tre maschere che eseguono gli ordini di Turandot con una ripetitività ciclica che non lascia spazio al libero pensiero (se non nel momento onirico e liberatorio di “Ho una casa nell’Honan” nella prima parte del secondo atto). Anche l’intera corte è costretta in una sorta di automatismo a perpetuare da sempre e meccanicamente il rito imposto; così ho riflettuto anche sulla necessità di attribuire al popolo movimenti standardizzati che avevano l’intenzione di richiamare le masse lavoratrici di Metropolis di Fritz Lang. Seguendo questa idea, la reggia l’ho pensata come un grande marchingegno: una sorta di carillon tanto prezioso quanto mortale: è sufficiente battere il gong perché il gioco meccanico abbia inizio.
Liù e Turandot: due “diversamente donne” che pure Puccini ama in modo profondo. Come le ha sentite quando hai deciso di mettere in scena l’opera?
Ho molto riflettuto sul personaggio di Turandot così lontano, in apparenza, dalle altre eroine pucciniane e in particolare sul suo “troppo rapido sgelamento”. Ho quindi azzardato, istintivamente, disseminando delle anticipazioni che rendessero più accettabile il viraggio di Turandot: ad ogni risoluzione degli enigmi lentamente si apre la gabbia dorata (da lei stessa voluta e subita chiusa sul “Mai nessun m’avrà”); sulla risoluzione del terzo enigma Turandot si priva del mantello – corazza che la avvolge – ed inizia a essere vestita di bianco a significare liberazione e purezza; il velo – diaframma con cui appare nel terzo atto – viene tolto da lei stessa sul “Principessa è l’amore” da lei ripetuto come propria rivelazione. Sul senso delle due vesti bianche di Turandot e di Liù c’è questa sottile indicazione di un possibile trasfondere dell’anima di Liù in quella della Principessa (e se non quella almeno il significato profondo dell’amore con tutto ciò che comporta) e del funerale di Liù all’interno della tomba dell’ava Lou Ling, omaggio ad un sacrificio così grande che Turandot pur non comprendendolo, rispetta e ammira.
Puccini è un maestro nella messa in scena di un’opera e ha sempre cercato di dare la massima attenzione, laddove ha potuto, ad ogni dettaglio: tu, giustamente, hai deciso di affrontarla sia come regista che come scenografo e costumista dando una tua lettura “globale” dell’opera.
Quando penso alla messa in scena di un’opera, mi è difficile scindere la scena dal costume e dalla regia perché ognuno di questi aspetti concorre in modo significativo e talvolta determinante alla visione (e comprensione) globale della stessa. Sono convinto che la complessità di un’opera come Turandot, peraltro “incompiuta”, ovvero terminata successivamente e con forti pressioni di Toscanini su Alfano, richieda in modo speciale un’attenzione ai dettagli oltre che cercare l’effetto d’assieme; la “favola”, come ogni favola che si rispetti, è fatta di particolari, talvolta enfatizzati talaltra solo accennati o magari volutamente nascosti perché scoprirli significa raggiungere un gradino ulteriore del cammino della conoscenza. Così ho cercato di fare in quest’opera offrendo un mix di cose evidenti e di sottintesi in modo che ogni spettatore possa leggerci quello che in quel momento gli è possibile, o più congeniale, trovare.
Solitamente realizzo plastici in scala, spesso anche solo per puro piacere, nei quali gioco a pensare anche ai costumi e alla regia. Così facendo mi fungo “spettatore” del mio spettacolo e posso vederlo e valutarlo con un certo distacco.
I costumi sono spesso molto importanti in un’opera: quelli che hai immaginato sono decisamente interessanti. A cosa ti sei ispirato? Come è stata la collaborazione con la Fondazione Cerratelli?
Le fonti dei costumi sono molteplici: Klimt, Beardsley, Chini, U. Brunelleschi, Erté, Barbier L. Bask – tutti del periodo Art nouveau e Art déco.
I costumi dette tre maschere, per esempio, sono citazioni dai costumi disegnati da Picasso per la Parade di Satie. La Fondazione Cerratelli, nelle splendide persone di Floridia Benedettini e Diego Fiorini con cui avevo già avuto il piacere di lavorare, hanno saputo realizzare le mie idee in modo elegante e raffinato, traducendo i miei bozzetti in maniera sorprendentemente scultorea grazie all’altissima professionalità e cultura che li contraddistingue. Sono davvero felice di questa collaborazione.
Per te, viareggino, cosa è significato debuttare proprio qui, nel teatro dedicato a Puccini, nei luoghi dove ha vissuto e composto e dove oggi riposa? E quali rapporti ti hanno legato nel passato al Festival Pucciniano?
Come tu ben sai “nemo profeta in patria“, specie a Viareggio. Sono ormai più di quindici anni che mi occupo di spettacoli lirici e non: da comparsa ad attrezzista, ad assistente alla regia, a costumista, a scenografo e a regista. Ho lavorato nei teatri di La Spezia, Bagni di Lucca, Massa, Lucca, Pisa e Livorno anche come vincitore del concorso “Opera Studio” per le scenografie di Dido and Aeneas di Purcell e Satyricon di Maderna nel 2007. Sono stato assistente alla regia e ai costumi a Tokio, Nagasaki e Kobe nel 2001 con la Madama Butterfly di Kan Yasuda; ho firmato scene, costumi e regia per la Penthesilea di Kleist, e scene e costumi per la Madame Butterfly di Belasco nel 2011 al Festival Pucciniano. Quest’anno quindi sono felicissimo di aver potuto realizzare questo mio sogno, in una realtà, quella del Festival, che sembra aver ricevuto nuova linfa vitale grazie alla presidenza di Adalgisa Mazza e alla direzione artistica di Daniele De Plano, a cui sono grato per la fiducia in me riposta nel momento in cui ho presentato questo mio progetto.
Cos’hai nel cassetto dopo questa Turandot? Cosa ti piacerebbe mettere in scena?
A dire il vero, il cassetto è strapieno di progetti, idee e sogni. Due sono le opere con cui mi piacerebbe cimentarmi particolarmente: Il Flauto Magico del mio amatissimo Mozart e Aida di Verdi, oltre che un progetto di cui magari ne possiamo parlare in futuro: quello di mettere in scena Medea e Saffo di Giovanni Pacini.
Vedremo cosa sarà possibile realizzare e dove: in fondo ogni giorno riserva sorprese e opportunità e, per mia natura, quest’ultime non intendo farmele sfuggire specie se possono rappresentare tappe della mia crescita personale e professionale.
Stefano Mecenate