Una delle scrittrici più interessanti, in ambito germanico, è senz’altro Ingeborg Bachmann, poetessa austriaca che, per taluni aspetti, ci ricorda Brecht, rimane immemore per il suo “intelletto lirico”. La sua vita è stata caratterizzata da paesaggi surrealistici, da rapporti impari, da metafore spezzate, dalla profonda solitudine dell’uomo, imprescindibile dagli eventi storici e sociali; vita che l’ha portata ad essere degna di essere definita poetessa rivoluzionaria ed innamorata ad un tempo. Ingeborg Bachman nasce nel 1926 a Klangefurt e muore nel 1973 a Roma. A 12 anni assiste all’invasione delle truppe naziste, esperienza che per lei costituisce la fine dell’infanzia, da cui deriva la sua prima grande paura: la morte. Morte intesa però come nero funereo contrapposto al liquido biancore della vita, come un orso, in Anrufung an den Großen Bären (1956), invocato a discendere dal cielo sulla terra a distruggere, cioè, il cielo cristiano. Il tutto venato però dio una vena polemica, che caratterizza anche la sua opera, peraltro contraddittoria dato che ci si trova in una situazione di promesse non mantenute, attese ed equilibri che vengono disattesi. Lei comunque incontra alcuni ostacoli che rappresentano la linea di orizzonte, l’impossibilità della comunicazione, le frontiere sociali, le difficoltà dei rapporti uomo/donna: un capovolgimento logico che deriva spontaneamente dalla negazione di un passato, pur sempre vagheggiato. Si viene rimandati alla frattura infantile: il “confine” segreto dell’evento storico. Ogni individuo, sembra suggerire implicitamente con la sua opera, ha dei confini che non riesce a superare. Ci si occupa di tutti legami tra confini . Questo è un tipo di confine di cui la critica letteraria non si è molto preoccupata. In questa sede vogliamo tentare di analizzare il concetto di confine in un’altra delle sue opere: Undine geht (1961). In questo suo scritto ci allontaniamo dal suo concetto di voce come organo impreciso, come strumento precario e lo ritroviamo invece caratteristica delimitante del confine, caratteristica che possiede, seppure in locazioni tutt’altro che idilliache, tutti i pregi insostituibili del vivente: il calore, la spigolosità ed i tremori. Perché la saga di Ondina? Ondina era una creatura delle acque, talmente bella e seducente, da attirare nel suo vortice una creatura umana e farsi sposare da essa. Questo amore “umano” umanizza anche lei e le dona un’anima, che la portò a diventare quel che in genere si suole definire “una brava moglie”. La sua fedeltà non era talmente forte da evocarne una pari da parte del marito, che incomincia il suo percorso di tradimenti, percorso che costringerà Ondina a ritornare nel suo mondo dove continua a lamentarsi. Ed è il passo del rimprovero all’uomo infedele che è il punto più bello di questo scritto, il passo che inizia con voi uomini! Voi mostri!. La definizione non è certo delle più tenui e non rispecchia l’idea che la Bachmann dava in altri suoi scritti dell’umanità: in questo caso infatti, l’uomo-umanità, al quale viene tra l’altro attribuito il nome di Hans (nome comune, generalizzante ed in un certo qual senso denigratorio dell’uomo teutonico) è l’elemento scatenante della confinata ed esangue umanità dell’Ondina che non mostra più compressione per l’umanità che sembra insensibile ai suoi dolori, alle sue sofferenze. La parola va oltre il confine dell’acqua, del fluttuante e trasmette attraverso il proprio suono, infuriato e brioso, tutta la verità in essa contenuta: l’effimera esistenza di un probabile rapporto uomo-donna. Il rapporto che qui viene definito è un rapporto impari, basato sull’appartenenza – dipendenza della donna dall’uomo e sulla bonarietà della donna. L’uomo appare essere il punto fisso di riferimento, senza di cui la donna non può vivere, il tiranno che con la sua gelosia opprime la donna e che crede di comprarla con i propri soldi, mentre in realtà, quello ad essere comprato è lui. Crede di lavorare l’uomo, di riuscire a crearsi una propria dimensione politica e culturale, ma in realtà tradiscono ogni essere delicato che intralcia il loro cammino, ogni essere che sembra voler sconfinare dal loro mondo ben regolato. Un essere fluttuante, evanescente e mutevole come Ondina sembra essere il colpevole in primis di averlo indotto a valicare il confine, di averlo indotto in tentazione; a lui attribuisce tutte le colpe quando poi si va a confessare, per dimostrare alla propria moglie ed ai propri figli che persona retta ed onesta sia. Un essere insicuro l’uomo, un essere che tenta di costruirsi una propria sicurezza ponendo dei confini, dei limiti alla cui infrazione può demandare tutte le proprie colpe. La Bachmann si dilunga molto ad enunciare, quasi in maniera scientifica, tutte le varie tipologie di uomini che meritano il disprezzo di Ondina: uomini che si erigono a forti creature, ma che in realtà, sono vittime delle convenzioni sociali e della loro assoluta brama di potere e di soddisfazione, brama che li porta a diventare deboli, insignificanti e falliti. Tutto quello che fanno, questi uomini “bulli”, è di vantare le proprie mogli, di voler dimostrare all’universo femminile che sono in grado di ergersi al di sopra di tutto e tutti, mentre in realtà non fanno altro che dipendere dall’universo femminile. Sia infatti Ondina, resa vittima dal loro desiderio, o la donna che si occupa di loro (madre, moglie, cameriera, amante, impiegata) rimangono ed appaiono i punti di riferimento a cui l’uomo si volge nel suo vortice di vita. Seppure le esigenze delle donne non vengano descritte chiaramente, vengano anzi sottaciute, l’eccessiva focalizzazione sulle esigenze maschili, richiama di rimando quelle femminili: il desiderio di una coerenza che trascenda dai confini, un desiderio che si paga spesso con al rinuncia, con molti rimpianti e con una vita solitaria dannata e che, infine, continui a sfidare l’indicibile, ad andare contro i confini. Il confine appare un altrove, altro ma non straniero, un labirinto che sul margine di una mappatura, richiama un oltrepassamento quasi “unheimlich”. L’acqua non ha pilastri, dice Ondina, è dunque una struttura che va oltre il margine della sicurezza, che rifiuta di essere relegata in un tracciato in una mappa: è un universo che fonde una prospettiva ‘al limite’. E’ l’ambito in cui può operare Ondina ed in cui l’uomo si trova del tutto spiazzato, perché è abituato all’ancora delle sue definizioni certe: cerca, l’uomo, tutti i modi di dire e le locuzioni che dimostrino la sfericità della terra, gli ambiti, come quelli economici e giuridici, che permettano loro di sentirsi ancorati ad un mondo, a una posizione di potere dalla quale possano persino decidere se sia o meno arrivato il momento di avere figli, vacanze, divertimento. Divinità tiranniche, che come la tradizione greca insegna, scendono dal proprio olimpo solo quando vogliono dimostrare la loro superiorità. Le donne che gli uomini amano, o meglio quelle da cui sono amati, sono donne che si accontentano del tempo loro concesso, che accettano con benevolenza e accondiscendenza un momento dedicato allo svago e che si rimettono completamente al desiderio dell’uomo, definitore dei limiti. Ondina non è e non può essere così: è un pericolo, perché contiene in sé degli elementi stranieri ed estranei, elementi che ricordano il mondo esotico dell’India e, dunque, dell’universo erotico e dei sensi, e della balena, mostro marino che nelle proprie viscere inghiottisce qualsiasi cosa gli capiti. Una donna fatale, del cui pericolo sembrano essere consci gli uomini, ma che forse proprio per questo, li affascina e li avvinghia; un’unione però impossibile perché terra e acqua in questo caso non si fondono, perché la terra non vuol perdere la sua stabilità, la sua sicurezza o, almeno, non vuole perderne il controllo. Uno dei legami riposa sul concetto di utopia come superamento del confine. Resta però da chiarire se il confine utopico è stato scelto per la sua atemporalità (caratteristico della Bachmann è infatti il concetto di tempo riproposto in Die gestundete Zeit (1953), tempo dilazionato, che è ancora concesso a revoca, in “un mondo che preannunzia giorni duri”, in un mondo in cui l’unica certezza è rimasta la vita) o per la sua chiara funzione di luogo di discussione femminista. Nella vita personale lei si domanda sempre cosa è l’utopia: la terra di propria scelta, che non esiste, una terra senza confine. Ma l’idea di confine si può storicizzare? Il confine rappresenterebbe la linea di separazione tra due territori. Ma come legare ciò al concetto e alla definizione della propria e della altrui identità in un contesto collettivo? E per quale motivo l’importanza di questi concetti non è stata denunciata ed esplicitata ? Questa ansia di Entgrenzung, ricorda la Zanasi, la Bachmann l’ha ricondotta alle proprie origini, alle proprie radici nella mescolanza austriaca di lingue e confini, alla “nostalgia di terre lontane” maturata in un angolo della Carinzia stretto all’incrocio di tre paesi. Esistono, infine, anche dei problemi legati ai problemi linguistici. Dopo la guerra la scrittrice studierà filosofia, in particolare Heidegger. Successivamente L. Wittgenstein scrivendo un articolo sulla sua filosofia. Laddove dice che al confine dell’impossibilità comunicare qualcosa, c’è il confine. Quindi il suo sforzo politico è quello di superare il confine dell’indicibile.
Bibliografia:
Lucio Saviani Voci di confine. Il limite e la scrittura, Salerno 1993
Giusi Zanasi Tra Ondina e Giovanna d’Arco: Ingeborg Bachmann nella memoria di Henze in AION, IUO Napoli, Nuova serie V, 3