LE PAROLE DELLA SPERANZA – GIOVANNINO GUARESCHI E I TEMPI MODERNI- PARTE I

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Se mi chiedono perché amo così tanto Guareschi e le sue opere, rispondo che pochi come lui sono stati faro e via maestra della mia vita.

Scoperto per caso tra i tanti libri della libreria paterna a poco più di otto anni (ero già “lettore” accanito e, prima ancora, ascoltatore delle letture genitoriali per fortuna mai mancate nei primi anni di crescita), è diventato compagno di viaggio prima della mia adolescenza piena di curiosità e di voglia di scoprire il mondo e le sue “verità”, poi della mia maturità dove ho trovato conforto e risposte ai tanti dubbi, incertezze, rabbie che la quotidianità dispensa con generosità.

Nelle pagine della tetralogia di Mondo Piccolo (ma non solo, poiché Giovannino ha scritto altrettante pagine ugualmente intense e piacevoli in tanti romanzi che spesso sono ancora poco conosciuti), ho sempre trovato le parole giuste per non arrendermi, per non “mettere il mio cervello all’ammasso” come Giovannino aveva fatto e invitava a fare ai suoi lettori, per dare un senso all’insensatezza di una società che cambiava, anno dopo anno, prendendo una deriva sempre più lontana da un’etica che mi apparteneva e che sentivo giusta per l’uomo di ogni tempo.

Specie negli ultimi decenni, mi sono confrontato con quanto Guareschi scriveva, profeta coraggioso e controcorrente, già negli anni ’60: “…Quale differenza fra l’Italia povera del 1945 e la povera Italia miliardaria del 1963! Tra i grattacieli del miracolo economico, soffia un vento caldo e polveroso che sa di cadavere, di sesso e di fogna. Nell’Italia miliardaria della dolce vita, morta è ogni speranza in un mondo migliore. Questa è l’Italia che cerca di combinare un orrendo pastrocchio di diavolo e d’Acquasanta, mentre una folta schiera di giovani preti di sinistra (che non somigliano certo a don Camillo) si preparano a benedire, nel nome di Cristo, le rosse bandiere dell’Anticristo.) L’attuale generazione d’italiani è quella dei dritti, degli obiettori di coscienza, degli antinazionalisti, dei negristi ed è cresciuta alla scuola della corruzione politica, del cinema neorealista e della letteratura social-sessuale di sinistra. Pertanto, più che una generazione, è una degenerazione…” (cfr. Prefazione a Il Compagno Don Camillo – Roncole-Verdi, 16 agosto 1963)

Potevano sembrare, allora, parole eccessive nei confronti di una società tesa a riscattarsi dalla povertà e dalla guerra e alla ricerca di un legittimo benessere; in realtà, insieme alle macerie delle case bombardate, le ruspe del modernismo portavano via valori e principi senza i quali la società non sarebbe stata più la stessa. Persi quei riferimenti, la corsa ad un benessere legittimo e auspicabile, diventava sempre più una folle corsa all’egocentrismo e all’individualismo che autorizzava i più forti di turno a prevaricare, schiacciare, usare, chiunque per raggiungere i propri scopi.

Una società “povera di spirito” cresceva all’ombra dei nuovi grattacieli nelle megalopoli come nelle città di provincia, delle larghe autostrade intasate da auto potenti e superaccessoriate, dei sofisticati aeroporti con veivoli sempre più grandi e arroganti, generando “mostri” che, subdolamente, si inoculavano nelle coscienze rendendo legittime quelle cose che, in altri tempi o con altro spirito, sarebbero apparse abominevoli.

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Giovannino è morto nel ’68, proprio all’inizio di quell’ultimo scorcio di secolo nel quale questo effetto devastante ha raggiunto il parossismo interessando l’intera società compresa la Chiesa verso la quale Guareschi guardava con qualche residua speranza come baluardo allo tsunami valoriale.

Eppure, con il suo “Don Camillo e i giovani d’oggi” fa in tempo a lanciare un ultimo disperato messaggio di speranza anche se pieno di dubbi come ci appare da una frase contenuta in una lettera ad un amico: “Io vivo isolato come un vecchio merlo impaniato sulla cima di un pioppo. Fischio ma come faccio a sapere se quelli che stanno giù mi sentono fischiare o se mi scambiano per un cornacchione?” (Cademario, 11 gennaio 1968).

Di quel libro, assieme a mille altre, merita ricordare una frase paradigmatica della lucida oggettività di Guareschi che pure, in qualche modo, non si precludeva la volontà di una assurda speranza: “«Compagno – disse con voce pacata – in questo mondo dove ognuno se ne infischia di tutti gli altri, in questo mondo dominato dall’egoismo e dall’indifferenza, noi continuiamo a combattere una guerra che è finita da un sacco di tempo. Non ti dà l’idea che noi siamo due fantasmi? Non ti rendi conto che, fra non molto, dopo aver tanto combattuto, ognuno per la sua bandiera, verremo cacciati via a calci,  io dai miei e tu dai tuoi  e ci ritroveremo miserabili e strapelati a dover dormire sotto un ponte?».
«E cosa significa questo? – rispose Peppone – Continueremo a litigare sotto il ponte».
Don Camillo pensò che in uno sporco e pidocchiosissimo mondo in cui non è possibile avere un vero amico è una gran consolazione poter trovare almeno un vero nemico”
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Del resto, l’intera vita di Giovannino Guareschi è contraddistinta da una ferma coerenza coi propri principi, incrollabili baluardi contro ogni tentazione di scendere a compromessi ma anche imprescindibili riferimenti per reagire alle situazioni più difficili. “Non muoio nemmeno se mi ammazzano” scriverà nei lunghi anni di detenzione nei lager tedeschi, e quella voce risuonerà con altrettanta determinazione anche nei corridoi della prigione parmense dove sarà costretto a scontare oltre 400 giorni di carcere per aver osato chiamare alle proprie responsabilità l’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. “Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione” (Cfr. No, niente appello, Candido, 23 aprile 1954).

Ma dentro quelle mura, come in quelle fredde e malsicure dei lager, Giovannino sente accanto a sé l’ala della Provvidenza, di cui, seppure può non comprenderne le scelte, si fida: “Completa è la mia fiducia nella Provvidenza che, per essere veramente tale, non deve mai essere vincolata da scadenze. Mai preoccuparsi del disagio di oggi, ma aver sempre l’occhio fisso nel bene finale che verrà quando sarà giusto che venga. I giorni della sofferenza non sono giorni persi: nessun istante è perso, è inutile, del tempo che Dio ci concede. Altrimenti non ce lo concederebbe

Coerenza, lealtà, fede: parole che pesano come macigni e che sono andate via via in disuso, sostituite da altre più morbide e allettanti, come le promesse che Battisti cantava nel 1973 “…Avrai anche un dancing per ballare e poi un biliardo per giocare, avrai un’osteria dove tu puoi bere  e poi il televisore da guardare, potrai anche peccare se lo vuoi!..”.

TV guardata con preoccupazione, non già perché strumento negativo in valore assoluto ma come potenziale mezzo di coercizione psicologica da parte di un sistema già orientato verso un condizionamento subliminare attraverso una falsa politica dei bisogni indotti e di una stampa piena di pubblicità: “…La tv col suo incessante martellare, condito con piacevoli musichette e divertenti spettacoli di varietà, crea nelle famiglie problemi, bisogni, o addirittura necessità praticamente inesistenti. Così come crea dal nulla dei valori e degli idoli. Crea una mentalità, un costume, un linguaggio“.

Stefano Mecenate

 

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