
Non è un caso. A Roma c’è una straordinaria facoltà di lettere. Mi sono iscritto a Lettere con indirizzo spettacolo e mi sono laureato in Storia del Cinema. Ho una passione per questo “mezzo” che ho cercato di applicare in modo assolutamente arbitrario da solo e, via via, è arrivata la voglia di farlo diventare un lavoro. Roma è, in qualche modo, la mecca del cinema italiano, ed è stata una città importante per la mia breve carriera all’interno di questo universo straordinario.Hai fatto film , videoclip musicali ma hai esordito con un cortometraggio Nunca pasa nada nel 1998, mentre i primi “riconoscimenti” sono arrivati con Peperoni nel 1999.
Sì, è vero. Cambia l’ottica della resa. Con Peperoni avevo voglia di raccontare una Calabria così come la conoscevo, raccontata attraverso gli occhi dei miei nonni. Una rappresentazione della Calabria degli anni 50. Un timido tentativo di sperimentare così nuovi linguaggi legati al cortometraggio. Pur producendo una storia molto classica c’era la volontà di sperimentare come e dove trovare la mia cifra stilistica. Potrei dire che si trattava di un’opera molto “ingenua”. Avevo 21 anni quando l’ho girato. Sono molto contento perché mi ha dato la possibilità di continuare. Grazie al quel corto ho ricevuto molti premi, sia in Italia che all’estero: ho avuto il piacere di vedere il mio corto trasmesso anche su molte TV (anche Canale 5). È stato un bel biglietto da visita che mi ha permesso di proseguire il mio lavoro.
Doitchlanda e La vera leggenda di Tony Vilar: ci puoi raccontare qualche chicca successa durante le riprese? È una visione realistica ma divertente dei calabrese all’estero.
Sono entrambi dei film di viaggio, c’era la voglia di fare un’operazione di tipo artistico viaggiando, incontrando nuove persone, incontrando nuove realtà e incontrando le comunità degli italiani. Un tuffo nel passato insomma: eravamo continuamente stimolati da questi tuffi, molto “tosti” dal punto di vista psicologico perchè, per esempio, in Tony Vilar, il protagonista, interpretato da Peppe, finisce nelle grinfie di una famiglia italiana a Buenos Aires e lo ingozzano di cibo. Nel film ha un rivolto molto comico ma è anche un’esperienza da noi vissuta con tanta malinconia. Negli occhi vedi la malinconia di non poter tornare in Italia molto spesso, di essere quasi in gabbia in un novo mondo che non è il loro. Ma non è più nemmeno il loro mondo quello che hanno lasciato in Italia. Aneddoti ce ne sono moltissimi: ci siamo scontrati con molte situazioni pericolose, abbiamo girato nel Bronx italiano.. abbiamo voluto raccontare la storia di alcune persone che hanno delle vite molto… era divertente. Il cinema di viaggio è un’esperienza forte non solo per lo spettatore ma anche per chi la fa.
Un papà dovrebbe amara indistintamente tutti i propri figli, ma, da umano ha delle predilezioni per qualcuno. Quale è il tuo “figlio” preferito?
Ti svelo un segreto che pochi sanno: il film “migliore” è sempre l’ultimo.
Quindi Tatanka: l’idea come è nata? Tratto dal racconto di Saviano tratta di un tema non certo facile. Come è che ne sei rimasto affascinato?
L’idea è nata dall’incontro con una produzione romana. Il racconto di Saviano ci sembrava interessante perché aveva due diverse impostazioni: quella di raccontare una faccia dell’Italia e quella di raccontare in un contesto difficile come quello casertano la possibilità di una redenzione e di una salvezza dal contesto stesso. Il film è a metà tra sport e camorra, che si fonde e diventa un terzo genere. È quello che ci ha permesso di raccontare un pezzo dell’Italia di oggi. La storia del protagonista è un po’ il paradigma per raccontare cosa è il Sud oggi, come si vive al Sud oggi e come, in questo caos, lo sport , può aiutarti a realizzare il sogno.
Ci sveli quale è il tuo grande sogno nel cassetto?
Non ce l’ho. Diciamo che in questo momento c’è un progetto a cui tengo e che potrebbe diventare il terzo capitolo della trilogia.
Elisa Cutullè