La passione per la scrittura era già presente da quando era bambino, ma la prima pubblicazione risale al 2003 in un’antologia di opere scelte di poesie. Come poeta partecipa a diverse manifestazioni poetiche, notturne e underground, nonché ad un documentario presentato al festival di Venezia del 2009.
Dopo c’è stato un passaggio alla saggistica fino ad arrivare al romanzo L’isola-confine, Ed. Libreria Croce.
Nel romanzo l’autore parla di un medico e della sue famiglie, ovvero quella creata con il matrimonio e quella “creata” con i rapporti nati nel centro di accoglienza per profughi.
Abbiamo incontrato l’autore per parlare con lui.
Un romanzo esile, breve: una risposta alle periodiche tragedie dei profughi che sbarcano sull’isola di Lampedusa?
Ho unito l’attualità scottante che, da siciliano, come sono, mi sento premere in ogni istante da quando è iniziata questa migrazione. Adesso è in maggiore risalto, ma la Sicilia e le altre regioni che sono, per così dire al confine con l’Africa, accolgono gli immigrati da tempo. Nonostante tutto, a quanto ne so, nessuno ne ha mai parlato in maniera letteraria. L’immigrazione esiste da lunghissimo tempo e noi, da siciliani, siamo stati sempre ospitalissimi. Un po’ è questo che mi ha spinto a scrivere. Dall’altro lato anche il fatto che l’isola non è soltanto un luogo fisico, ma può rappresentare anche una metafora dell’anima. Tutti noi, in un certo senso, con le nostre crisi e i nostri naufragi interiori siamo un’isola che sta al confine.
Riassumendo direi che ho voluto parlare da un lato del naufragio fisico degli immigrati e, dall’altro, sul naufragio interiore dell’anima della società occidentale.
Abbiamo il medico, tutto d’un pezzo, molto dedito al lavoro e la moglie che è insegnante e dà l’impressione di essere completamente isterica. Ma anche in lui scatta qualcosa che stravolge il suo modo di essere. Cosa puoi dirci su questi protagonisti?
Lui è il siciliano, l’isolano. La moglie è del continente e lo ha seguito sull’isola per amore. Vivere sull’isola, tuttavia, è come vivere su una nave: i contatti sono complicati e se non ami il mare, che è una delle componenti essenziali dell’isola, arrivi ad odiarlo a dismisura. È il mare a dettare i ritmi dell’isola e, se non si riesce ad entrare nei ritmi marini, si soccombe. La moglie è una donna che è stata schiacciata da questo peso del mare e dal fatto di non riuscire ad esprimersi con il suo lavoro. Tutte le sue energie malandate le indirizza verso il figlio che sta combinando un po’ di guai con una “presunta” ragazza.
La famiglia tipo (genitori+ figli) da te rappresentata appare “rotta” mentre il centro di accoglienza, in cui vivono insieme persone che non hanno legami familiari, crea rapporti familiari molto forti. Quale è il messaggio che vuoi trasmettere ai lettori?
A me piace esprimermi attraverso i paradossi, le contraddizioni e gli ossimori e, dal punto di vista stilistico, ho unito la tragedia alla commedia; dal punto di vista dello stile linguistico ho unito la poesia alla forma narrativa e, infine, dal punto di vista dei contenuti ho voluto creare questa disgregazione dal punto di vista generazionale in una famiglia “tipica” all’opposto di un centro di accoglienza che in realtà riesce a creare dell’unità e oltre. Quello che il medico fa, alla fine, per il profugo va oltre. Infatti il conflitto, la contrapposizione deve creare una terza via.
Quando due realtà contradditorie si incontrano o si deflagra o coi si rinnova creando una terza via. Infatti, oltre al naufragio c’è un rinnovamento che ognuno vive a modo suo: il medico nell’aiutare il suo sosia, diverso ma uguale; il figlio del medico ha un’altra storia che vedrà nascere un bambino e la moglie del medico ottiene la possibilità di amare l’isola.
Contraddizioni e ossimori. Cosa ci racconti dei paradossi?
I paradossi sono legati al continuo gioco tra odio e amore che si sviluppa all’interno del romanzo. Quelli che si dovrebbero amare in realtà si odiano o hanno difficoltà ad esprimere l’amore, facendo prevalere l’individualismo sulla collettività.
Gli opposti si vedono anche nel senso nel freddo interiore rispetto alla calura esterna e in altre piccole cose.
Il sale della mia scrittura è cercare sempre un qualcosa che si contrapponga nella frase e nelle frasi un po’ frammentate.
Amore: quali forme sono presenti nel libro e quale dovrebbe avere più peso?
In una generazione frammentata come potrebbe essere quella degli anni 70 e che, in teoria, dovevano essere la generazione migliore in assoluto, in realtà è una generazione che, a conti fatti, non riesce ad avere il peso giusto nella società italiana. È una società disgregata che ha partecipato ad aventi importanti non riuscendo ad avere il giusto peso sociale.
È appunto questa generazione che ha avuto figli che hanno dovuto inventarsi un nuovo modo di comunicare attraverso Internet. Il figlio del medico utilizza internet e sviluppa il proprio sentimento in maniera completamente diversa rispetto a come avrebbero fatto i genitori. Si sviluppa questo sentimento amoroso che porta al rinnovamento della vita e che, appunto, rimane un mistero che avvolge il percorso di tutti i protagonisti del libro.
Il tuo romanzo vorrebbe essere anche un invito agli italiani, e non solo, a non dimenticare cosa succede con i profughi?
Assolutamente sì. Non si deve mai dimenticare, soprattutto anche perché anche gli italiani sono stati anche emigrati ed immigrati, magari con storie meno disperate o meno diffuse. Gli italiani si stono spostati da sempre in quasi tutti i continenti e hanno, in un certo senso, potuto sperimentare cosa significa arrivare in un paese diverso e cosa significa integrazione e scambio culturale, quello che dovrebbe essere la conclusione più giusta.
Al contempo è però anche un invito a non usare troppa retorica per queste problematiche, privilegiando sempre e soprattutto un approccio umano.
Elisa Cutullè