Tutto gira intorno a Godot

 

warten auf godot

La traduzione, a volte, non rende. Come non rende il gioco di parole del grande assente del pezzo di Becket: il Signor Godot.

L’opera teatrale di Samuel Beckett (senza dubbio la sua più famosa a livello mondiale), scritta nel 1952 e messa, in scena per la prima volta nel 1953 al Théâtre de Babylone di Parigi, viene scritta in francese nella sua redazione originaria e tradotta in inglese solo nel 1954. È la perfetta rappresentazione dell’assurdità della vita dell’uomo, considerato solo una componente minuscola dell’organizzazione del mondo.

Emblematico già il nome : Godot, combinazione, secondo critici e linguistici di “God” (Dio) e Dot (Punto) o, se si vuole far riferimento al francese”ot”, ossia piccolo.

Elementi che la rappresentazione di Dagmar Schlingmann, con scenografia e costumi di Sabine Mader è riuscita a rendere appieno. Lo spettatore si ritrova in scena un cubo, rappresentante un anonimo altopiano in qualche landa desolata, su cui dormono due senzatetto, circondati da una marea di vestiti, buste e cianfrusaglie varie. In lontananza un mare, i cui flutti entrano, di tanto in tanto, nei momenti silenziosi, ma che mai prendono il sopravvento.

La Schligmann mantiene i due personaggi Valdimiro, chiamato Didi (Christian Higer) ed Estragone, chiamato Gogo (Andreas Anke), come anche il presunto proprietario terriere sulla dimora passeggera dei due senzatetto Pozzo (Klaus Meininger) e Lucky, il fido (per forza) servitore (Cino Djavid), ma decide di eliminare l’elemento di lentezza, di tempo che si protrae all’infinito. La scena gira con regolarità, i personaggi si trovano a scendere e a salire per le scale, a combattere con i flutti e a fantastica sull’albero a cui appendersi. Ma l’albero non un albero, bensì un lampione che si adatta alle diverse ore del giorno e domina pesantemente la scena. Forse simbolo della luce, della sempre presente possibilità di vedere la le cose sotto la giusta luce e, al contempo, l’impossibilità della mente umana di rendersene conto. Una sorta di monito: a sinistra la ragione, negletta e a destra l’apparizione del garzone che annuncia ai due personaggi che il famoso Signor Godot non verrà oggi, ma sicuramente domani.

Didi e Gogo, si trovano in questo libo indefinito tra le due realtà e ne vengono distratti solo quando appaiono in scena Pozzo e Lucky che, a loro volta, vivono altri due aspetti dell’essere umano: l’idea di supremazia assoluta e la totale sottomissione. Lucky, magistralmente interpretato da Djavid, è in tutto succube al suo “padrone”, tranne nel momento in cui indossando il cappello (quasi una protezione dalla follia del mondo), è in grado di fare ragionamenti profondi e ben strutturati, forse anche troppo per una normale mente umana. La Schligmann decide, però, di modificare la sordità di Pozzo, quando appare nella seconda parte, in cecità; scelta dettata dalla forse visualità del periodo contemporaneo (non a caso Lucky ha una sorta di danza nella rete, in cui scorre immagini su un presunto smartphone). Come se si cogliesse la critica alla società moderna: solo in mano con uno smartphone la persona del XXI secolo sembra in grado di comunicare e di far parte del mondo. Senza è staccata, vive a parte.

Interessanti anche le scelte della drammaturga Bettina Schuster-Gäb che inserisce elementi di internet o traspone alcune scene in Germania, nella Bresgovia, una delle perle della natura tedesca.

È impressionante, quanta attualità mantenga un pezzo scritto oltre 60 anni fa e come lo spettatore se ne vada con il dubbio se anche lui (o lei) in fondo, al posto di vivere la vita, cogliendone gli aspetti sia positivi che negativi, si concentri invece su qualcosa che non solo non c’è, ma neanche arriverà mai, trascurando, a volte, gli affetti familiari.

 

Elisa Cutullè

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