Apertura molto suggestiva per il 59°Festival PUCCINI che propone, in un nuovo allestimento che porta la firma di Nicola Rubertelli per le scene e di Antonio Calenda per la regia, il dittico Cavalleria Rusticana e Tabarro che mancava da un po’ nel Gran Teatro di Torre del Lago.
Omaggio ai 150 anni dalla nascita di Pietro Mascagni, compositore livornese amico e compagno di studi di Puccini e primo direttore e organizzatore del Festival, questa produzione di Cavalleria si caratterizza per un inquietante riverbero che caratterizza quel bianco teatro antico, ormai in rovina, che campeggia al posto della piazza del paese mentre lontano, oltre la strada, si nota, pur’essa in rovina, la chiesa e il campanile. Colpo d’occhio di grandissima suggestione e di grande bellezza che accoglie e raccoglie quel dramma antico e modernissimo allo stesso tempo nel quale si trovano a recitare, oltre che a cantare, gli artisti.
Compito non facile, con il rischio sempre presente e talvolta corso, di diventare banale o didascalico, di far perdere la maestosità di quella vicenda. In questo senso, la regia accorta e misurata di Calenda, porta interessanti soluzioni allo scorrere della storia e alle dinamiche tra i personaggi fornendo acute letture di momenti significativi del dramma fino all’epilogo che, sinceramente, non comprendiamo e forse per questo non condividiamo molto.
Quella croce levata tra le due donne nel momento dell’uccisione di Turiddu non rende ragione di una religiosità “laica” e quasi pagana che, a nostro avviso, contraddistingue i personaggi.
Pertinenti, ricchi fin quasi all’eccesso (quelli delle donne), i costumi di Stefano Nicolao disegnano l’animus di quella gente, quella “forza ancestrale” di cui fa cenno Calenda nelle sue note di regia, rendendoli visibilmente parte di una comunità dalle regole ferree, solidale quanto impietosa verso coloro che si pongono al di fuori di quelle regole, forte delle proprie certezze e di quelle “ritualità quotidiane” che tacitamente uniscono creando inscindibili vincoli di sangue.
L’esperta bacchetta del M° Alberto Veronesi mentre pare a suo agio nelle parti intimistiche della partitura mascagnana, all’interno delle quali scava e mette in luce le suggestioni emotive più profonde.
Più che convincente la prova del baritono Alberto Gazale (Alfio) che sostiene il ruolo con padronanza vocale e con un’interpretazione di grande effetto. Qualche perplessità sulla performance del tenore Francesco Anile, al suo debutto a Torre del Lago: il suo Turiddu ha convinto meno dell’ interpretazione che ha dato di Luigi nel Tabarro di cui parleremo dopo.
Una Santuzza di grande temperamento quella proposta dalla soprano Anda Louise Bogza, anch’ella per la prima volta sul palcoscenico del Grande teatro di Torre del Lago: voce e presenza scenica non le mancano a tutto vantaggio del pubblico che l’ha adeguatamente premiata con applausi caldi anche se un po’ tardivi. Come pure pregevole la prova della mezzo soprano Silvia Pasini (Mamma Lucia), altera e racchiusa nel proprio dramma che la vede schiacciata da responsabilità non sue che pure la coinvolgono fino all’epilogo, e della bella Lola a cui ha dato la voce la mezzo soprano Renata Lamanda.
Importante, perché assolutamente protagonista, il coro del Festival Puccini diretto dal M° Stefano Visconti che se l’è cavata dignitosamente salvo alcune imprecisioni che, sicuramente, si aggiusteranno nel corso delle prossime recite. A dirigere il coro delle voci bianche, il M° Sara Matteucci.
Più “vecchia” di quasi trent’anni (Cavalleria è del 1890, Tabarro del 1918), la seconda opera di questo dittico, TABARRO appunto, porta la firma di Giacomo Puccini per la musica e di Giuseppe Adami per il libretto, tratto da La houppelande di Didier Gold.
Tabarro è un’opera difficile: la quasi assenza di melodie facili, la densità drammatica e compositiva che non abbandona quasi mai i protagonisti piegandoli all’ineluttabilità del destino che “gioca” con ognuno di loro spiazzandoli ogni volta che sembrano giungere ad un pensiero compiuto, non ne facilità la messa in scena richiedendo a cantanti ed orchestra uno sforzo notevole concentrato in quell’unico atto.
L’allestimento proposto al 59° Festival Puccini, vede ancora una volta chiamati in causa Antonio Calenda per la regia, Nicola Rubertelli per le scene e Stefano Nicolao per il costumi.
La scena, meno efficace di Cavalleria, mostra tuttavia nel suo monocromatismo quasi ossessivo di cogliere il senso di quell’inferno che vive “sotto” la Parigi delle luci e delle lusinghe (ci è mancato un riferimento esplicito che poteva essere anche solo accennato “sopra”) dove scaricatori, marinai, midinettes rincorrono inutilmente un sogno di felicità.
L’immobilità del barcone che fa da sfondo al dramma è l’immobilità di quei personaggi, costretti, in modi diversi, a “piegare il capo e incurvar la schiena”, ossessionati dalla cupezza soffocante di una vita senza prospettive, insofferenti e disperati, capaci solo di cercare nella trasgressione (l’alcol per il Tinca “no fa bene il vino! S’affogano i pensieri di rivolta: ché se bevo non penso e se penso non rido!”, il tradimento per Luigi “par di rubare insieme qualcosa alla vita” e Giorgetta “C’è là in fondo Parigi che ci grida con mille voci liete il suo fascino immortal”) un assurdo risarcimento alla loro prostrazione.
E seppure ci sono mostrate figure più “positive” (la Frugola, Il Talpa ad esempio), queste non fanno che rafforzare il tono drammatico e pessimistico di quel luogo e delle anime che lo popolano.
Convincente la regia di Calenda, attenta ad essere essenziale ed efficace per non tradire l’austerità del contesto e per restituire, per quanto possibile, quel pathos che l’attraversa e la compenetra fin dalle prime battute.
In questo caso il tenore Francesco Anile (Luigi) ha dato una buona prova delle proprie capacità vocali e attoriali dando al personaggio quello spessore che merita. Sempre ottima la performance di Alberto Gazale (Michele), compreso in quel personaggio cupo e dai sentimenti profondi che non riesce a esternare al quale mette a disposizione una bella voce ed una recitazione molto coinvolgente.
Assolutamente brava Renata Lamanda che ha reso la Frugola in tutte le sue sfaccettature, come pure, nella sua più che navigata esperienza, ha fatto il basso Luigi Roni con Il Talpa e Mario Bolognesi con Il Tinca.
Più che positiva la soprano Chiara Angella (Giorgetta) che ha saputo dosare i due registri della protagonista (drammaticità e leggerezza) con bravura dandole quella credibilità che conquista il cuore del pubblico.
Interessante la direzione del M° Alberto Veronesi, attento a cogliere e restituire tutte le nuance di questa partitura nella quale Puccini impegna se stesso in un lavoro di cesello che rende quest’opera un piccolo capolavoro.
Prossime repliche il 10 e il 17 agosto.
Stefano Mecenate