La vita: l’unica malattia mortale, ereditaria, che si trasmette per via sessuale. Definizione assurda, ma molto realistica. La vita viene concessa senza interpellare il diretto o la diretta interessata. Nessuno chiede ad un neonato se voglia o meno ricevere il dono della vita. Il discorso non cambia nemmeno nel corso della vita: in qualche modo il diritto di vivere o no non è, nella maggior parte dei casi, una scelta che noi possiamo prendere.
Si sente parlare sempre più spesso di testamento biologico: del diritto di un essere umano di decidere come agire in caso di malattie gravi, di accettare o meno l’accanimento terapeutico, di voler donare gli organi. Da un lato ci sono i sostenitori che ribadiscono la preminenza della volontà personale, dall’altro coloro che rimarcano come determinate situazioni vengano prese in momenti di lucidità, di freddezza, in cui non si sa bene ancora come si reagirà o meno.
Sono diverse le storie che si verificano dentro agli ospedali: di gente che lotta per sopravvivere e di gente che ha perso la speranza e vorrebbe solo veder scendere il sipario per lasciarsi il tutto alle spalle.
Un ruolo fondamentale in questo ambito ce l’hanno i medici, specie rara e speciale che vive in un proprio universo. Tralasciando che leggere analisi cliniche o referti equivale ad un quiz degno dell’associazione MENSA, spesso i medici appaiono troppo concentrati su di sé, sulla carriera, sulla possibilità di fare qualche scoperta eclatante e lasciano il paziente in secondo piano. Umanità è, a tutti gli effetti, una parola che non si trova spesso o, almeno, non con la dose che sarebbe necessaria. Certo, troppo coinvolgimento potrebbe avere dei risvolti negativi, togliendo la lucidità di operare. Quindi, quale sarebbe l’atteggiamento migliore da adottare?
Giuseppe Baiocchi e Patrizia Fumagalli hanno cercato di presentare uno spaccato del reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Lecco, proprio quell’ospedale in cui era ricoverata Eluana Englaro.
Una combinazione tra il giornalismo di Baiocchi e l’esperienza clinica della Dott.ssa Fumagalli che permettono di vivere parte delle storie che accadono dietro ai muri dell’ospedale. Prendere una decisione se spegnere o meno le macchine non è facile: da un lato ci sono le famiglie che si accaniscono a riavere i propri cari come prima, come le sorelle di un ragazzo che, in seguito al suo incidente, lo visitano con costanza parlandogli, raccontandogli cosa succede stimolandolo ad intervenire e che hanno successo, e dall’altro la storia non a lieto fine di Eluana. Vi è il ragazzo atleta che aveva ben chiaramente affermato di non voler vivere se non fosse stato in grado di essere un atleta al 100% ma che risvegliandosi con una gamba amputata accetta la situazione, quasi avesse completamente rimosso o dimenticato la sua decisione precedente all’intervento.
Non esiste la ricetta magica, né la risposta perfetta: ogni storia è un microcosmo, un mondo a sé. Spunti di riflessione che solleticano la nostra coscienza. Noi da che parte ci poniamo?
Come scrive Giancarlo Cesena nell’introduzione ” Se la vita si rianima, se un malato dichiarato in stato vegetativo persistente, inaspettatamente si risveglia, se una persona gravemente menomata, scopre di poter vivere un’esistenza normale e stranamente felice, se accade ciò, siamo pronti ad accettarlo?”