Intervista a Lucio Dalla

Incontro durante l’EUROPA TOUR 2012 del cantante bolognese a fine Febbraio 2012. Poco prima della sua prematura scomparsa.

Cantautore, attore, regista e professore: chi è veramente Lucio Dalla?
A me piace cambiare, altrimenti uno diventa stupido, statico, si fossilizza. Faccio diverse cose, all’opposto appunto. Facendo tante cose ti rimane sempre qualcosa di tutte. È chiaro che sono parte di un processo: ho iniziato facendo jazz, poi ho iniziato a cantare, poi ho iniziato a scrivere canzoni, qualcosa per la televisione, indi a fare l’attore e poi il regista delle opere liriche e infine insegnare all’università. Alla fine io mi diverto a fare tutto. Tutto è bello quando è fatto bene e con gusto. Inoltre hai la possibilità di evitare di fossilizzarti in un’attività che è quella del cantante e del cantautore che alla lunga ti stanca.

Ci puoi dire qualcosa di più sulla tua esperienza di insegnamento all’università?
Sì, certo. Da due anni insegno i all’Università di Urbino. Ad Aprile inizierò un corso sul sociologo Georg Simmel. Ho anche fatto lezioni alla Normale di Pisa, alla Federico II di Napoli. L’ho fatto perché mi piace, anche se non è il mio “lavoro”. Potrei anche dire che non dire quale sia il mio lavoro in realtà. Ne faccio tanti, con l’intensità necessaria ma, soprattutto, con il divertimento che mi da’ la sensazione di fare qualcosa che non avevo fatto prima.

Per citare Pirandello, ti senti Uno, Nessuno e centomila?
Esattamente. Infatti sono stato anche all’edizione di quest’anno di Sanremo a portare Pierdavide Carone, un cantante che è bravissimo e che produco. Io sono andato a Sanremo per dirigere l’orchestra. Mi piace inventare ogni giorno qualcosa che mi dia il piacere di farla, perché non l’avevo mai fatta. La mia vita è in continuo svolgimento.

Quindi nella tua presenza a Sanremo hai svolto anche la funzione da mentore?
Non direi mentore. Io ho prodotto il disco di Pierdavide, ma conservando la sua autenticità. Sono stato semplicemente un supporto, a dirigere l’orchestra e a fare delle armonie. Mi piace considerarmi un supporto ideale, più che un mentore. Sono stato funzionale al progetto, mi sono adeguato alla situazione svolgendo un ruolo che era insolito anche per me.

Hai iniziato come musicista Jazz. Che importanza ha il Jazz nella tua formazione musicale?
Ha un’importanza totale. Ancora oggi quando faccio gli arrangiamenti per le mie canzoni, ma anche per le canzoni di altri, ho ancora sempre la visione di un mondo ritmico che sembra sofisticato ma che, in realtà, è diventato popolare. Dire che c’è un po’ di jazz in tutte le cose che faccio. Come c’è anche un po’ di classica, altrimenti non avrei scritto Caruso. All’inizio di quest’anno ho cantato, a Bologna, assieme a Ruggero Raimondi e Anna Caterina Antonacci che sono i due più importanti cantanti lirici italiani nel mondo e mi sono divertito. Insieme poi abbiamo cantato Caruso. Mi piace cambiare. La mia filosofia è questa: puoi fare sempre una cosa fino a diventare bravo, ma poi comunque ti rompi. Infatti, aver iniziato come musicista di jazz mi permette, ogni volta che faccio una canzone mia di variarla: di cantarla una sera in un modo e la volta successiva con un altro arrangiamento.

Hai spaziato in diversi generi musicali, staccandoti dai vari comparti stagno. Che cosa significa per un artista farlo?
Significa tutto. Pensiamo, per esempio ad Andy Warhol. Lui ha iniziato come pittore classico, poi ha cambiato genere di pittura, ha fatto il produttore di Lou Reed, ha fatto cinema. Io credo che un artista che abbia la fortuna di vivere all’interno di una manifestazione estetica così complessa e divertente come la mediazione artistica ha quasi l’obbligo di uscire dai propri panni, di non usare sempre le stesse scarpe. Provare, insomma, delle esperienze nuove che servono a completare la propria formazione artistica ma anche a divertirsi di più.

Non hai solo cantato con grandi della lirica, ma collaborato anche con personaggi come Edoardo Vianello, Gino Paoli e Francesco de Gregori. Che cosa significa collaborare? Ti sei dovuto reinventare? Hai dovuto mettere in gioco te stesso?
In realtà non mi sono mai reinventato. In questa collaborazione ho assunto spesso il ruolo del regista (con Morandi ho fatto ilo tour all’estero). Mi piace immaginare anche le cose con la testa di un altro: entrare nella sensibilità di quello con cui opero, canto o collaboro, facendo qualcosa di nuovo per tutti e due. Il risultato finale mi diverte; mi diverte entrare, in qualche modo, nell’immaginazione del pubblico che ci vede insieme non solo nella nostra identità ma in qualcosa di nuovo che si forma strada facendo.

Morandi e tu: due emiliani insieme. Che connubio è?
Con Morandi eravamo amici sin da ragazzini. Dopo abbiamo fatto due anni e mezzo di tour in Europa, venendo anche in Germania. Abbiamo fatto un disco insieme che ha venduto più di un milione di copie. Gianni è un grandissimo cantante, sia tecnicamente che per i milioni di dischi che ha venduto. Forse è il cantante più preparato che c’è in Italia. Adesso canta di meno perché fa di più presentatore. Però anche lui è un po’ come me: gli piace cambiare, diversificare i ruolo. È cantante e presentatore, ma è anche stato attore. Il lavoro ufficiale che noi facciamo è già strano di suo per cui apre le porte di altre condizioni, di altre situazioni. Sting, per esempio, fa anche l’attore e passa, a livello musicale dalla sua musica alla musica medievale e del Cinquecento. Facciamo un po’ tutti così quelli che ne abbiamo la possibilità.

Italiani all’estero. Cosa ti viene in mente a proposito di italianità?
Io non sono proprio italianissimo, nel senso che non conosco molte canzoni della tradizione musicale italiana. Ma ci sono delle mie canzoni che stanno anche nell’immaginario degli italiani che vivono all’estero: 4 Marzo, Piazza Grande e, naturalmente, Caruso. Anche gli altri dischi hanno venduto, però queste canzoni hanno una storia particolare. Quando faccio i concerti fuori dall’Italia non solo ci sono italiani, ma anche stranieri che hanno sentito le mie canzoni, probabilmente durante le vacanze in Italia. Nei miei concerti in Germania c’è spesso un libretto con le traduzioni dei testi. Devo confessare che durante le mie tournee all’estero mi piace andare in dei musei. Per me è anche “vacanza”. Alcuni posti, pur conoscendoli bene, mi piace rivisitarli. Quando vado a Zurigo, per esempio, vado al Kunstmuseum, a Parigi vado al Louvre. Mischio insomma il “lavoro” con il “piacere”.

Rimaniamo “all’estero”. Alcune delle tue canzoni sono state anche tradotte e cantate in altre lingue. Cosa provi quando senti le tua canzoni non in italiano?
Mi fa piacere. C’è una canzone, per esempio, che in Italia non è mai stata un singolo: Tutta la vita. Questa canzone ha venduto più di 10 milioni di dischi in America e Sudamerica, in America cantata da Olivia Newton John e da molti gruppi in Messico e in Argentina. Non è che mi sento orgoglioso, ma mi fa piacere sentire che la canzone è arrivata fin là. Come lo è anche il fatto che Caruso è conosciuta in tutto il mondo. Forse se avessi dovuto pensare alla mia attività di cantante, avrei dovuto seguire di più questa strada. Una volta fatta la canzone, invece l’ho lasciata lì ed ho fatto diverse altre cose che mi davano la stessa emozione. In Spagna, per esempio, ci sono state molte cover: sentirle mi da’ gusto, mi diverte.

Le tue canzoni: specchio della tua vita?
Le mie canzoni raccontano del mondo. Io non scrivo mai di me, sarebbe troppo noioso. La chiave delle mie canzoni è che io sono sempre l’ultimo. È chiaro che io vedo il mondo dal mio punto di vista, ma le mie canzoni non raccontano mai di me. Anna e Marco non sono io, sono due ragazzi che ho visto nel bar sotto casa mia. Ne L’anno che verrà ci siamo tutti, non solo io. Potrei dire che, in fondo, sono uno scrittore: se scrivessi sempre di me il pubblico si romperebbe le scatole. Forse sarò presuntuoso ma direi che nelle mie canzoni c’è la gente che le ascolta.

La “tua” canzone preferita?
Me lo chiedono spesso, ma non sono mai convinto che ce ne sia una in particolare. Se dovessi fare una valutazione numerica è sicuramente Caruso, anche perché è una canzone anomala rispetto al mio repertorio. La canzone ha venduto più di 30 milioni di dischi, fra tutte le varie versioni, quindi non solo la mia. Però ci sono delle canzoni, “minori”, che mi piacciono tanto. Il mio ultimo disco di Novembre, in cui ho inserito tutti i lati B. Non perché i lati B sono meno importanti, ma perché in un disco che vende tanto sono al massimo due o tre le canzoni che la gente conosce. In questa raccolta ho inserito quelle che a me piacciono di più.

Elisa Cutullè

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