Intervista a Enrico Terrinoni

 

Enrico Terrinoni è professore associato di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia. Autore di numerosi scritti su Joyce e la letteratura irlandese, ha ottenuto varie fellowship internazionali presso University College Dublin, Indiana University, e Trinity College Dublin. Co-dirige la «Internationalist Review of Irish Culture». Ha tradotto Muriel Spark, Brendan Behan, G. M. Flynn, B.S. Johnson, John Burnside, Miguel Siyuco e Umberto Eco. Collabora con «Il Manifesto». Finalista  nel 2012 al Premio Napoli per la traduzione dell’Ulisse di Joyce, pubblicata dalla Newton Compton Editori.

ViviSaar lo ha incontrato per una chiacchierata su Irlanda, letteratura e traduzione.

Come è nata la passione per la letteratura inglese ed in particolare per quella irlandese?

È una storia lunga. Inizialmente mi sono avvicinato all’Irlanda tramite la sua musica, ascoltando i dischi dei Pogues e di Christy Moore, dischi spesso molto politici, il che mi ha poi fatto interessare anche alla questione irlandese e al conflitto in Ulster con la Gran Bretagna. L’interesse per l’Irlanda mi ha in seguito portato all’Inghilterra. Il mio è stato un percorso inverso rispetto a quello di tanti colleghi. Io all’Inghilterra ci sono arrivato partendo dalla colonia, o come direbbero persone con cui non sono d’accordo, dalla periferia dell’impero. Perché l’Irlanda e la sua letteratura sono il cuore di quella che conosciamo come letteratura inglese, come dimostrano i vari Sheridan, Swift, Shaw, Wilde, Joyce, Beckett, e tanti altri. Poi, questo mio interesse iniziale si è solidificato all’università. Mi sono laureato in una facoltà, all’Università di Roma Tre, che annoverava tra i suoi docenti gli studiosi del gruppo di ricerca gravitante intorno a Giorgio Melchiori, con Franca Ruggieri, Carlo Bigazzi e altri, un gruppo di anglisti ma anche di irlandesisti. Al primo anno, nell’ambito di un corso di lingua e letteratura inglese, seguii un ciclo di lezioni sulla letteratura anglo-irlandese tenute da Bigazzi. La parte monografica del corso era incentrata sulla scrittura autobiografica, e confrontava in particolar modo due opere, il Portrait di James Joyce, e un bellissimo libro dal titolo Borstal Boy di Brendan Behan, scrittore socialista e militante dell’IRA. In seguito, a coronamento di questo percorso iniziatico dei miei studi accademici, avrei tradotto, di Brendan Behan Confessioni di un ribelle irlandese, e di James Joyce l’Ulisse, con la revisione proprio del mio vecchio maestro Carlo Bigazzi.

Dario Fertilio, del Corriere della Sera, ha affermato che la nuova traduzione di Joyce è ancora più vicina alla lingua irlandese. Cosa significa per uno studioso della letteratura non analizzare i pensieri bensì trasporre i pensieri? Quali sono le sfide da superare?

Questa è una domanda da un milione di dollari. Trasporre i pensieri significa analizzarli, sviscerarli, tentare di raggiungerne la sorgente, ovvero quei processi chimici, eminentemente materiali, che avvengono nel nostro cervello e producono la materia aerea che chiamiamo pensiero. In Joyce il pensiero è tutto. Uno dei primi recensori del suo Ulysses, l’occultista e satanista Alistair Crowley lo definì un novel of the mind, un romanzo della mente, preannunciando decenni di critica che avrebbero visto nella tecnica del flusso di coscienza la vera chiave del testo. Io ritengo che, se il flusso di coscienza esiste in Joyce, questo è dominato da un istinto a trascrivere il pensiero senza occultarne i nessi logici o mnemonici. Trasporlo in un’altra lingua è quindi in sé un’analisi, forse anche un’autoanalisi, che produce inevitabilmente altri pensieri, altri nessi, altre memorie.

Renzo S. Crivelli, de Il Sole 24 Ore, definisce il nuovo linguaggio: ironico. In cosa consiste l’ironia di Joyce?

L’ironia, in virtù del distacco dalla materia trattata, è la tecnica che permette a Joyce di farci sorridere “a scoppio ritardato”, come con quelle battute che sulle prime non ci divertono, ma poi a ripensarci, ci appaiono estremamente argute ed efficaci. L’Ulisse è principalmente un libro comico, ma la sua comicità risiede proprio in questa ironia disincantata, in uno sguardo sul mondo sempre a metà tra il beffardo e il tragico, nella ricognizione della difficoltà di esistere, una difficoltà che in fin dei conti può farci anche ridere. Bloom, con tutte le sue tragedie semiserie è l’archetipo del personaggio comico-ironico, distaccato e sofferente al tempo stesso, un uomo nuovo, che sa ridere, sorridere, e quasi piangere di fronte alla materia immateriale della sua vita di uomo sempre in bilico tra il fallimento esistenziale e lo slancio pindarico del suo intelletto consumato e affilato.

Elisabetta D’Erme, su Il Piccolo afferma che ora l’Ulisse di Joyce è diventata una lettura per tutti. In che modo la riscrittura di un testo, o una nuova interpretazione, più attuale, può contribuire alla fruibilità di un testo?

Un traduttore non dovrebbe mai porsi il problema di raggiungere un pubblico maggiore rendendo più fruibile un testo, o, peggio ancora, semplificandolo. Tuttavia, in Italia avevamo fino a poco fa una traduzione che, per tanti motivi, allontanava i lettori dal capolavoro di Joyce, complicando di molto il dettato del testo originale. Ulysses è un libro sì difficile, ma tutt’altro che illeggibile, in gran parte scritto in un linguaggio colloquiale e con registri che i suoi detrattori definirebbero “bassi”. Proprio questa sua colloquialità l’ha reso inviso a lettori d’eccezione, e un po’ snob, come Virginia Woolf. Le traduzioni, spesso, non solo quella italiana, non hanno colto questa sua “bassezza”, questa colloquialità dell’eloquio, e hanno reso il testo in senso, direi, epico, con un’altezza di linguaggio francamente non presente, se non in qualche passaggio, nell’originale. Molti lettori italiani sono stati abituati a considerare l’Ulisse un testo epico, e ad aspettarsi nelle sue traduzioni una altezza di linguaggio adeguata. A loro consiglio di leggerlo in inglese. Spesso i traduttori del passato ci hanno regalato un Ulisse aulico, classicheggiante, trattando Ulysses alla stregua di un opera epica, la stessa epica (omerica) che Joyce sfruttò traviandola, prendendosi gioco dell’eroismo delle gesta in essa narrate, come anche del linguaggio “eroico” che la contraddistingue. Tradurre l’Ulisse comprendendo che si tratta di un testo tutt’altro che “epico”, ma anzi comico, una sorta di presa in giro dell’epica, anche nel suo linguaggio, è stata la mia missione.

Su che cosa si è basato quando ha redatto la nuova traduzione? Come ha proceduto?
Ho lavorato sulla prima edizione di Ulysses, uscita nel 1922 a Parigi, incorporando tutte le errata corrige elaborate,, negli anni successivi alla sua uscita, da Joyce stesso e dai suoi collaboratori. Ho evitato di utilizzare l’edizione in voga nell’accademia, il cosiddetto Corrected Text di Gabler, un testo corretto ed emendato a quarant’anni dalla morte dell’autore da valenti filologi e studiosi, che però si sono basati non sulle edizioni che Joyce ha visto in vita, ma, in virtù dei tanti errori presenti in queste, sui manoscritti precedenti la prima stampa, che si volevano più corrette e vicine alle intenzioni dell’autore. Non si è dato abbastanza peso, però, al fatto che Joyce corresse diversi degli errori presenti in quelle edizioni, e quelli che non corresse, c’è da immaginare che gli andassero bene così. Joyce stesso, nell’Ulisse, definisce gli “errori del genio” volontari, spiegando che conducono alla “rivelazione”. Il criterio di Gabler, dunque, non riesco a condividerlo quando si tratta di presentare l’Ulisse ai lettori, in quanto ritengo che questi meritino di confrontarsi con il testo che Joyce mandò alle stampe, e che in più riprese corresse, non con un testo corretto da altri “a babbo morto”, come si dice in gergo. In ambito accademico, tuttavia, il Corrected Text di Gabler, è utilissimo per conoscere la genesi di Ulysses e il metodo di composizione di Joyce.

Quanto alla seconda parte della domanda, nel tradurre ho adottato una strategia plastica, che si adattasse alla mutevolezza del testo, un’opera che cambia continuamente sotto ai nostri occhi di lettori, con repentini mutamenti di stile, registro, eloquio. Tradurre Ulisse significa tradurre un’opera fluida, che richiede strategie interpretative plurali, non fisse, eterodosse, non ortodosse. Bisogna comprendere che Ulisse contiene al suo interno una miriade di altre opere, innumerevoli stili, migliaia di percorsi ermeneutici suggeriti dal suo fluire incostante e infinito.
C’è un’opera letteraria che vorrebbe tradurre? Perché?

Al momento l’unica traduzione a cui sto lavorando è la riproposizione di un altro grande classico, La lettera scarlatta di Hawthorne, in uscita nel 2014. Il mio sogno in futuro sarebbe tradurre La vita e le opinioni di Tristram Shandy Gentleman, capolavoro di un altro grande irlandese sui generis, Laurence Sterne. È un’opera che insieme a pochissime altre (l’Odissea, La Divina Commedia, il Don Chisciotte, l’Amleto, il Faust, e appunto l’Ulisse) considero un caposaldo della nostra percezione letteraria, non solo contemporanea. Poi, certo, se qualcuno mi chiedesse di ritradurre il temutissimo Finnegans Wake di Joyce, ci penserei più di una volta prima di rifiutare. Sarebbero entrambi esperimenti tra i più importanti tentati nel panorama culturale italiano degli ultimi decenni. Ma per questi, come è avvenuto  per Ulisse, ho bisogno di un editore coraggioso.

 

Elisa Cutullè

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