Intervista a Claudia Ciardi

Per Claudia tornare sulle orme inquiete di tanti artisti, che nella nascente metropoli berlinese di inizio Novecento vedevano una sponda perfetta ai loro cammini ‘in rivolta’, e cogliere la “lirica delle metropoli”, per dirla con Ludwig Meidner, nel volto mutevole e pietrificante insieme della Città, significa sul piano personale, intellettuale e artistico, realizzare l’esperienza di misurare un orizzonte sfaccettato quanto sfuggente, o in grado di interpretare, potenziandole, le tante energie e istanze che riempiono di dubbi e aspettative l’attuale definizione di identità europea.

Nell’aprile 2012 Claudia ha inaugurato lo spazio margini in/versi, un blog in cui raccoglie anteprime, materiali di ricerca, voci e riflessioni di amici, una mensola di libreria davanti alla quale ci si può soffermare per qualche momento da dedicare alla lettura.

Attualmente, oltre a coltivare i temi che caratterizzano la sua scrittura, svolge l’attività di pubblicista e consulente editoriale, tenendo lezioni pubbliche sui propri  lavori.

 

 

Come è il tuo rapporto personale con la filosofia? C’è un filosofo che senti particolarmente vicino?

Da Platone in poi l’occidente metabolizza, non senza defezioni e sabotaggi, una scissione tra il pensiero razionale e l’essere artista.

Il cortocircuito tra il sintagma mitico, prodotto da uno sguardo fantastico e da un istinto narrante con cui si cerca di rappresentare la realtà e ordinare il patrimonio delle esperienze e del vissuto, alla base del meccanismo di inventio che anima anche il poeta, e l’affermazione di una capacità critica che privilegia la linearità del logos, si era già manifestato nell’area ionica, intorno al VI secolo a. C. Da qui, il riconoscimento del pensiero umano in quanto interprete, artefice e attore principale nella definizione del vero, guadagna via via posizioni nell’ambito dell’indagine filosofica. Ma questo forzato voltare le spalle a Orfeo, il cui potere e capacità di agire sulla sfera emozionale e sui nessi della memoria viene visto, nel trionfo dell’infallibilità razionale, come pericoloso e portatore di un elemento perturbante (Platone bandisce proprio i poeti, in quanto inaffidabili, dalla propria repubblica ideale), finisce forse per regalare al mondo occidentale la più clamorosa delle contraddizioni. Del resto, se leggiamo la sterminata opera platonica, vediamo che si nutre di un denso patrimonio culturale, al cui interno riaffiorano, sotto varie forme, proprio gli elementi sui quali si appunta la condanna del pensatore, dal mito, addirittura rigenerato al suo interno in nuove forme, all’orfismo, alla dizione poetica: impossibile non cogliere la poesia nella bella cornice di natura con cui si apre il Fedro o nella drammatica descrizione di Socrate che attende la morte.

In sostanza, l’impressione è che il rigetto del potere di eros e mania, i doni divini con cui si manifesterebbe il “creare” del poeta, non abbia convinto fino in fondo neppure colui che per primo ha ingaggiato la lotta. In realtà “filosofia e poesia hanno la stessa necessità del mito (cioè di un nuovo mitologizzare) e della mimesis. […] Tutti discendiamo dalla voce della Musa, che ognuno ascolta a modo proprio”, come si legge nell’efficace sintesi di Susanna Mati, filosofa e germanista, che della questione “arte e pensiero” si occupa in una interessante monografia: La decisione di Platone. Sulla “condanna dell’arte”, Il Melangolo, 2010.

Perciò, se devo esprimere una preferenza, mi orienterei a quei pensatori che si abbeverano a diverse dimensioni del sapere per l’elaborazione delle loro idee. Più che affascinante il ‘dialogo’ con la natura della scuola presocratica, in cui l’uomo è un organismo simbiotico e sincronizzato con il cosmo in cui è iscritto. E a proposito di ‘decostruttori’ del fraseggio filosofico, mi vengono in mente le note su James Frazer di Wittgenstein, nelle quali il pensatore austriaco scardina alcuni dei pregiudizi sui quali si era costruita la retorica positivista della seconda metà dell’Ottocento, sviluppando, in largo anticipo su tutti gli studiosi a lui contemporanei, delle sorprendenti riflessioni antropologiche. Anzi, Wittgenstein, nella messa a fuoco del proprio pensiero si serve proprio di un metodo “antropologico” che, come dice lui stesso, “consiste nella semplice descrizione dello statuto civile di certe realtà che i filosofi tendono costantemente a idealizzare e sublimare: il linguaggio, la matematica, l’etica, la religione, l’opera d’arte, ecc….; consiste cioè nel richiamare alla memoria la precisa collocazione e funzione che esse hanno o possono avere nella nostra vita o più esattamente nelle nostre “forme di vita”.”

Stesso discorso vale per Marc Bloch e Walter Benjamin, l’uno storico, l’altro filosofo, ma entrambi soprattutto profondi esploratori di immaginari e interpreti del patrimonio simbolico che in ogni epoca agisce come “profondo levatore” dei comportamenti umani.

Lavorare su Walter Benjamin, sulla lingua di Benjamin, sebbene sul versante poetico, mi ha messo in contatto con questa sorta di declinazione doppia della parola, che nel momento in cui definisce qualcosa sfuma e perde di consistenza, trovandosi quasi nella condizione di ‘rifilare’ i legami che stabiliscono il suo rapporto con la realtà. Ma proprio in questo gioco di specchi, in questa constatazione del continuo divenire del mondo e dunque della relatività dei mezzi che l’uomo utilizza per conoscerlo e rappresentarlo, la parola rafforza la sua unicità di significante e significato, che è allo stesso tempo rivelatrice di polimorfia. Dell’enunciato di Wittgenstein, secondo cui la filosofia non è chiamata a scoprire né produrre nulla di nuovo ma solo a cercare la chiarezza, la parola benjaminiana conserva un tratto straordinariamente evocativo sul piano simbolico, che emerge soprattutto nella poetica dell’oggetto e del ricordo, una dimensione così empatica, in cui mi è capitato di ritrovare un’intimità che oserei definire quasi familiare.

 

 

C’è un manoscritto che ti piacerebbe “scoprire”?

Anche in questo caso rispondo provando a tracciare un paio o più percorsi. Visto che di immaginari abbiamo qui discusso, per rimanere sul piano del mito e al contempo richiamare, in un momento così sciagurato, ciò che la Grecia rappresenta per l’appunto nell’immaginario collettivo europeo, suggerirei il bellissimo commento all’Iliade di Maria Serena Mirto, uno scrigno pieno di perle sugli usi e costumi del mondo greco antico. Il prezioso e fondamentale contributo della Mirto arricchisce e completa una patinata pubblicazione del poema uscita per Einaudi-Gallimard, dal punto di vista grafico e qualitativo ineccepibile. E tuttavia si tratta, a mio avviso, di una collocazione che rende giustizia solo a metà al lavoro della studiosa, destinato com’è all’ultima parte del volume e riprodotto in corpo minore, un’appendice in cui ci si imbatte di quando in quando, e che in tal modo non riesce a farsi apprezzare per il proprio valore; per non parlare del prezzo piuttosto proibitivo di queste edizioni, che certamente contribuisce non poco a tener lontani molti appassionati. Sarebbe auspicabile che il testo della Mirto, uno scritto che è a tutti gli effetti opera letteraria e perciò dotata di vita autonoma, ed ha, lo ripeto, una natura trasversale, mettendo sul tappeto argomenti di antropologia, storia delle religioni, mitologia per approfondirli attraverso gli strumenti dell’analisi filologica e della critica testuale, potesse trovare la strada di una divulgazione più ampia, magari in una nuova edizione più avvicinabile dall’ampio pubblico.

In seconda battuta “scoprirei” il codice del volo di Leonardo, per la straordinaria metafora che il volo ha sempre rappresentato in ogni epoca umana. I disegni del manoscritto vinciano non esprimono soltanto il desiderio di esplorare i cieli da parte di un ingegno fuori dal comune, ma si possono quasi interpretare come un’allegoria alchemica del difficile cammino del sapere, una sorta di albedo in cui la materia si affina e, cercando la via del volo, mostra quasi la nostalgia per una dimensione fluida e spirituale che l’esercizio dell’intelligenza porta con sé, perché al pari di un’architettura gotica tende verso l’alto e si completa nell’esposizione alle fonti di luce, in apparenza incorporee ed astratte, che ne attraversano la ‘struttura’.

Infine dato che di volo, immaginazione e poesia abbiamo parlato, mi sentirei di invitarvi alla lettura de L’anello di re Salomone, di Konrad Lorenz, considerando soprattutto la parte sul linguaggio degli animali e le sorprendenti esperienze con i corvidi; mi riferisco al capitolo che dà il titolo all’edizione italiana (in tedesco Er redete mit dem Vieh, den Vögeln und den Fischen). Avvicinandoci alla natura, Lorenz ci riporta per così dire a una ‘ingenuità’ del sentire che spesso manca nelle nostre vite. Quel che è più triste è che troppo raramente ci rendiamo conto di aver perso un contatto essenziale con quanto ci circonda e costituisce un elemento ineludibile nel nostro percorso umano e nella conoscenza del mondo.

 

 

Elisa Cutullè

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