Incontro con Stefano Benni

Una chiacchierata con Stefano Benni sulla letteratura in senso lato.

Sei noto per la tua attività giornalistica e di scrittore, ma hai pubblicato anche 3 raccolte di poesie. Qual’è il tuo rapporto con la poesia?

La mia poesia “Il poeta” è una poesia ironica, fatta di stereotipi. A me piace scrivere poesie che siano anche comiche, ironiche, come è, del resto, la tradizione della letteratura italiana. Specialmente in  un periodo in cui i poeti dovevano essere per forza seri, un po’ ombrosi e un po’ solitari io mi divertivo a lanciare queste piccole provocazioni. Adesso, invecchiando, la mia poesia è diventata più come quella che in realtà combattevo, non seriosa, bensì seria. A me continua a piacere il vedere l’aspetto leggero della poesia, la poesia cantata e cerco di avvicinarmi anche all’aspetto più profondo che è la poesia dei sentimenti, Il tutto nel rispetto della tradizione italiana. Noi italiani abbiamo dei poeti anche nel Novecento molto filosofi e molto allegri e altri invece con delle tematiche più profonde che, apparentemente non scherzano con i loro versi, mentre in realtà ogni grande poeta ha un momento di ironia, di leggerezza.

 

La scrittura di genere è presente anche nell’ambito della poesia. C’è qualche poetessa che ti piace particolarmente?

Recentemente un mio amico arabo, iracheno mi ha dato un libro dal titolo Confesso che ho peccato, che contiene le poesie di 22 poetesse arabe. Ho scoperto che nei paesi arabi c’è questo movimento di donne che scrivono poesie (le poesie hanno un valore più alto della letteratura). Dato che in Italia non esistono traduzioni ho chiesto a questo mio amico di fornirmi altro materiale di queste poetesse irachene, siriane e libanesi veramente straordinarie.

 

Hai anche collaborato con  L’Espresso e Panorama, con Cuore e Tango,Il Mago ma anche con i quotidiani La Repubblica e Il Manifesto.  Su quest’ultimo c’era il Benni fuorioso,  comparso per la prima volta nel 1979 e poi ritornato nel 1986. Qual’è il tuo rapporto con il giornalismo?

Ho cominciato con il giornalismo. Le prime cose che ho scritto sono state sui giornali. E questo per motivi puramente alimentari, cioè ero rimasto senza lavoro e ho provato così a guadagnarmi  qualche soldo. Ho scritto anche di fatti di cronaca nera e di partite di calcio e dopo, un poco alla volta, ho incominciato a mandare i miei pezzi in giro. Ancora oggi scrivo per giornali, qualche volta, come per La Repubblica. Direi che nel frattempo preferisco scrivere libri.

 

Il Manifesto ha chiuso…

Non ha proprio “chiuso” nel senso che purtroppo una situazioni di bilancio negativo che esisteva da anni è “esplosa”. C’è una possibilità di ricomprare la testata. È un po’ complicato, ma non è tutto perduto. Io spero che si possa rimediare in questo modo, magari facendolo diventare un settimanale. Sarebbe un peccato se Il Manifesto sparisse del tutto o diventasse qualcosa d’altro: ci sono state diverse azioni per salvare la testata, ma finora, direi che in qualche modo abbiamo sbagliato qualcosa, perché non si è mai riusciti ad avere un pareggio di bilancio, Grande stima da tutti, a volte anche dai “nemici politici”, però poche copie. Questo alla fine ha pesato molto.

 

E il tuo debutto “letterario” invece come è avvenuto?

Il mio debutto è stato quello di partecipare a un corso indetto dalla rivista Il Mago e ho avuto veramente una grande fortuna perchè non avevo nessun contatto con il mondo dell’editoria e non conoscevo nessuno. Loro sono stati molto gentili: mi hanno scritto una lettera in cui mi comunicavano che gli era piaciuto molto il mio racconto, che lo avrebbero pubblicato e ch, se volevo, potevo pubblicare altri racconti. Quindi io, di colpo, mi sono sentita proiettata in una diversa dimensione della scrittura. Prima facevo pezzi “su ordinazione” per il giornale, cosa che facevo anche volentieri. Improvvisamente mi hanno chiesto di provare a fare lo scrittore. Ho incominciato a mandare racconti e da lì è iniziato il raffronto con quest’altro tipo di scrittura, la scrittura di lunga durata. La chiamo così perché “dura” più di un pezzo giornalistico. Devo molto a Fruttero e Lucentini, i direttori de Il Mago perché mi hanno molto incoraggiato in questo  mio inizio.

 

Quale è la modalità del tuo scrivere?

Dopo 30 anni qualche regola dovrei avercela, invece non è così. Io continuo a scrivere in un modo molto disordinato. Ogni libro nasce in un modo diverso: a volte ho l’ispirazione di una storia e invece ne scrivo un’altra mentre altre volte inizio a scrivere in prosa e viene fuori una poesia. Più passa il tempo e meno ci capisco. Non so se ci sia una specie di segreto della scrittura che ogni tanto ti fa incominciare. L’unica cosa che ho imparato è che quando un libro parte e dopo un po’ non va avanti  oppure ne sono scontento, lo butto via. Ne ho già buttati via 3 o 4. Non lo tengo lì.

 

 

Spostando il punto di vista da scrittore a editore è difficile, ma non impossibile, cercare di capire cosa voglia leggere il pubblico. Una sfida che hai affrontato anche in qualità di Direttore editoriale della collana “OSSIGENO”. Cosa si cerca negli scritti di potenziali futuri scrittori? Quali parametri di analisi entrano in gioco?

Questo lavoro l’ho fatto poco, molto poco. Appena 3 anni. Un’esperienza breve ma bella. Era un periodo in cui per i giovani era abbastanza difficile arrivare alle case editrici. Oggi è forse un pochino meglio, ma allora non era affatto chiaro. Volevo vedere, all’epoca se, con l’aiuto delle Feltrinelli, riuscivo a pubblicare qualche testo di debuttanti, ma che fosse originale. Non volevo pubblicare gialli. Abbiamo pubblicato delle cose che sono andate anche abbastanza bene, però al Feltrinelli non ci ha creduto tantissimo, per cui alla fine la cosa si è un po’ spenta. L’esperienza in sé è stata molto divertente anche se leggere 2 manoscritti al giorno era, a volte, un po’ faticoso e quindi, dopo 3 anni, siamo esplosi.

 

Hai appena detto che non volevi pubblicare dei gialli. Come mai? Non hai un rapporto molto positivo con i gialli?

No, non ho un rapporto positivo con il fatto che, forse, se ne pubblicano effettivamente troppi e molti sono abbastanza banali. A volte l’editore va anche a mode e forse adesso la moda dei gialli è anche già passata. Però in quel periodo anche la Feltrinelli era caduta in questa “trappola”: se arrivava qualcosa che non era un giallo era in qualche modo svantaggiata. Forse al giorno d’oggi al moda dei gialli a tutti i costi è già passata  nascerà un’altra moda.

 

Però c’è tanta voglia di pubblicare, spesso direttamente da parte dell’autore stesso. Cosa ne pensi tu di questa tendenza dell’autopubblicazione?

Scrivere e pubblicare sono due cose diverse. Scrivere ha una sua dignità anche se uno non pubblica. Quando qualcuno mi dice che gli piace scrivere io ricordo che non è male tenere un libro 3-4 anni nel cassetto e lavorarci bene. A volte pubblicare non risolve niente: se si pubblica un brutto libro non si diventa scrittori per forza. Esiste una dignità dello scrivere che è indipendente dalla dignità della pubblicazione. Se uno si rende conto di avere una grande passione e di voler far leggere il suo libro a tutti allora  può entrare nel mondo dell’editoria ma deve avere molta pazienza. Il problema grosso è che la metà dei libri in circolazione non sono libri di scrittori bensì di personaggi televisivi riciclati come scrittori.

 

É possibile anche pubblicare direttamente online, senza passare attraverso l’editoria tradizionale. Cosa ne pensi degli e-book e dei lettori di libri elettronici tipo il Kindle?

Non ne so molto, Sono abbastanza tradizionale non do’ nessun giudizio… ci vuole del tempo per vedere i risultati. Possiamo avere dei bellissimi esordi oppure vedere migliaia di schifezze. Direi che è un po’ presto per dirlo. Però è una buona possibilità. Inoltre bisogna ricordare che i supporti di lettura non sono gratuiti e, spesso, abbastanza costosi. Magari si potrebbe pensare di creare dei supporti che costino un po’ meno.

 

Elisa Cutullè & Paola Cairo

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