Incontro con Marco Montemarano

Giuseppe Russo, ideatore del Premio e Direttore editoriale Neri Pozza  afferma che il romanzo di Marco Montemarano  è un romanzo i cui personaggi restano a lungo nel ricordo del lettore. Un romanzo costruito narrativamente in maniera magnifica e dal quale è impossibile staccarsi fino alla fine. Noi abbiamo incontrato per voi il vincitore del premio dotato di €25.000 e il cui libro verrà pubblicato a Novembre 2013.

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Come definsici te stesso?

Sono una persona che ha sempre cercato di mantenere ordine e disciplina dentro di sé, non sempre con successo. Il disordine mi destabilizza.

 

Dici che a 28 anni, dopo aver sempre vissuto a Roma, decidi di mollare tutto e di andare in Germania. Come mai questa scelta e come mai proprio la Germania?

Ero inquieto, mi sembrava che in Italia ci fosse sempre un sottofondo di non detto, di inespresso. Per una persona che come me ama l’ordine e la chiarezza, soprattutto in un’età in cui si cerca il proprio posto nel mondo, era un disastro. Conobbi una donna, una tedesca, e andai da lei. Anche se la nostra relazione poi durò pochissimo, il suo fu un intervento direi salvifico. Oggi sono tornato su tante cose, ho riflettuto, l’Italia non è poi tanto male anche se sta attraversando uno dei peggiori momenti della sua storia recente. Ma all’epoca avevo bisogno di un luogo come la Germania, un posto che, al di là di tutti i suoi difetti, colloca l’individuo dove deve stare, gli consente di esprimersi e di fare quello che sa fare meglio, anche nell’interesse collettivo. Certo, la Germania è una società molto normativa, all’inizio è difficile adattarsi.

 

Cosa ricordi del tuo primo arrivo in Germania?

La poca cura che c’era per certe cose come il vestiario, il cibo, tutto quello che per noi italiani conta così tanto. I tedeschi in questi 20 anni sono cambiati molto, ma all’epoca era quasi consolante per me conoscere una società così poco legata al culto dell’apparenza.

 

Asse Roma/Monaco. Cosa unisce/divide le due città?

Credo che i punti di contatto siano molto pochi. Roma, soprattutto negli ultimi anni, è diventata scorbutica, soffocante. C’è un senso di diffidenza diffuso nella società con qualche bellissimo episodio di solidarietà. A Monaco è quasi il contrario: è una città ordinata, quasi soporifera. Ma c’è qualcosa che purtroppo cova anche qui ed esplode tutto insieme. Mi riferisco al caso di Domenico, il ragazzo italiano ucciso pochi mesi fa senza motivo. Il fatto è accaduto a pochissima distanza da casa mia. Io poi Domenico lo avevo conosciuto anche personalmente. Un fatto terribile, in grado di cambiare l’intera percezione del luogo in cui vivi.

 

Dici che in Italia vivevi una sorta di prigione, mentre in Germania hai ritrovato la tua libertà. Puoi spiegarcelo meglio?

Torno al discorso iniziale: percepivo una fondamentale vischiosità dei rapporti sociali. Un feudalesimo strisciante, in cui in un modo o nell’altro bisognava sempre affiliarsi a qualcuno, avere un protettore per poter fare quello che si desiderava. Arrivato a Monaco mi misi a vivere di lavori saltuari, iniziai a scrivere, mi iscrissi all’università alla soglia dei trent’anni anche se ero già laureato. Mi sentivo meno giudicato e più libero di fare quello che mi procurava soddisfazione. Ma c’erano in ballo anche motivi personali, certo.

 

Anche il protagonista del tuo romanzo vive in una sorta di prigione mentale. Quanto c’è di te in lui?

Direi non moltissimo, forse un trenta per cento. Il resto è inventato. Lui è un solitario e io sono una persona molto socievole, lui ha un rapporto non risolto con il suo passato e io invece credo di averci fatto i conti. Giovanni (soprannominato Hitchcock), il protagonista de La ricchezza, è un inadeguato, come sono inadeguati gli altri personaggi, i due fratelli Pedrotti e la sorella Maddalena. Personaggi sempre in fuga da qualcosa, da se stessi. Io invece, credo, ho smesso da tempo di fuggire da me stesso.

 

Hai scritto da sempre. Cosa significa per te aver vinto il premio Neri Pozza?

È una sensazione indescrivibile. Letteralmente, non me ne capacito, Mi sento come un boa che tenta di ingoiare un vitello. È più grande di me. Partecipavamo in 1800, non avrei mai pensato di vincere. Ero talmente convinto che non ce l’avrei fatta mai e poi mai che la scorsa estate sono andato a visitare il Teatro Olimpico di Vicenza, quello in cui si è svolta la cerimonia di premiazione. Almeno l’ho visto, pensavo. D’altro canto, scrivo da quasi trent’anni e finora le soddisfazioni erano state poche. Strano, pensavo. La cosa a cui mi dedico da più tempo e con più costanza è proprio quella che mi ha dato i minori riconoscimenti. Adesso arriva tutto insieme. Forse perché anch’io sono arrivato a un punto giusto di maturità. Sono contento così, per molti artisti la cosa peggiore è avere successo quando sono troppo giovani e poi sforzarsi per i decenni successivi di imitare se stessi.

 

Progetti futuri?
Scrivere. E vivere, naturalmente. Perché tra la scrittura e l’esperienza vissuta il legame deve essere strettissimo. C’è tanta gente in giro che scrive invece di vivere.

 

Elisa Cutullè

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