Teatro e cinema sono due modi diversi di rappresentare l’arte. La pecora nera di Ascanio Celestino ne è un esempio: nato da una serie di interviste raccolte dal regista nel corso di tre anni ha visto la luce, dapprima, una piece teatrale ed ora il film. Due modi diversi di raccontare la stessa storia: il pezzo teatrale assume le veci di scrittore e racconta una storia, mentre il film si trasforma in percorso antropologico e cerca di svelare che cosa di nasconda dietro alla sensazione di disagi che prescinde da un’epoca storica ben precisa.
Non è una storia di pazzia, né un’indagine sui manicomi: è la storia di un ragazzo che vede il mondo solo attraverso i propri occhi e limitato al suo modo di percepire il mondo.
Nicola, fin dall’inizio, appare un personaggio che ha un suo modo di vedere le cose: un proprio modo di relazionarsi, tutto suo. Non riesce a sottostare alle regole del mondo e ne ha una visione sfalsata: la nonna “corrompe” i maestri affinché lo promuovano, i fratelli maggiori lo prendono in giro e sfruttano la sua stranezza; il padre è una figura assente che compare solo per “trasportarlo” da una parte all’altra fino a consegnarlo in manicomio. Nessuno lo vuole e la società, che non sa come gestire i problemi, opta per la soluzione più facile: relegare i casi difficili in una struttura chiusa in cui non possano fare del male né a se stessi, né alla società.
Ma il mondo, con gli occhi di un bambino assume tutta un’altra valenza: i matti diventano santi e il manicomio un luogo incantato. Solo che Nicola, idealizzando questa struttura, non sarà capace di crescere. Non scopriamo se la sua schizofrenia sia ereditaria (la mamma era ricoverata nello stesso manicomio) o se sia stata causata dall’assenza di un ambiente sereno di crescita: fatto sta che Celestini riesce in maniera chiara, semplice e trasparente, a farci vedere il mondo con gli occhi di Nicola: un mondo in cui esistono regole ed in cui non è mai troppo tardi per credere all’amore.
Elisa Cutullè