La riflessione sulla felicità è forse la componente più antica all’interno della filosofia di qualunque civiltà. Quando il giovane Agostino, a riposo durante un periodo di convalescenza, affronta questo tema ha dunque alle spalle una tradizione classica ingombrante. La leggerezza del De beata vita non tradisce questo fardello: si dipana piacevolmente in forma di dialogo entro una situazione conviviale. Lì si trova il concetto chiave dell’opera: il cibo che stiamo mangiando, si chiede Agostino, nutre il nostro corpo; tuttavia anche l’anima, insieme a esso, attraversa la vita – naviga fra onde impetuose che le fanno tanto desiderare la sicurezza delle coste – e a sua volta necessita di nutrimento. La grande modernità di questo scritto risiede nel riconoscere quello che oggi chiameremmo Ego come motore di un perenne languore, che ci tiene lontani dalla pace interiore. L’antidoto per sedare questa continua sensazione di mancanza non è semplicemente condurre una vita frugale, coltivare la conoscenza e praticare la moderazione: si tratta di perseguire quel modus che ci allinea con il ritmo del divino, il quale non teme la povertà, non teme la fame, non teme, in definitiva, la morte. Un testo che fornisce al lettore contemporaneo (assistito dal ricco apparato di note e dall’introduzione di Francesco Roat) spunti universali, restituendogli i mezzi per una libertà interiore che va oltre il credo del singolo.
[…] Tre sono, secondo l’Ipponense, le categorie di naviganti/persone che in modo dissimile affrontano tale percorso esistenziale. La prima è costituita da quelli che, una volta raggiunta l’età «della ragione», si stabiliscono agevolmente in quel porto e sono di guida agli altri. Alla seconda appartengono coloro che, ingannati dalla bonaccia marina, prendono il largo a rischio di naufragio. La terza – di cui fa parte Agostino – è caratterizzata da soggetti che, quantunque vaganti per il mare «fra i marosi», sanno come riprendere «il retto corso» e ritornare alla «dolce patria». Ma per tutte e tre le specie di persone un grave ostacolo si profila all’orizzonte: «una montagna gigantesca» che svetta davanti al porto e attira a sé i viandanti, col rischio di farli sprofondare negli abissi che si aprono sotto il suo fragile suolo. Detto monte è espressione della vanagloria di coloro i quali si accostano alla filosofia accecati dalla superbia intellettuale. [Dall’introduzione di Francesco Roat]
A cura di Francesco Roat
Pagine 66, 8,50 euro in libreria
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