In “Torno per dirvi tutto” Muratti tratta il delicato tema del suicidio, visto e narrato come una scelta estrema in cui possono convivere dolore e speranza. Negli 8 capitoli del libro così come negli 8 testi delle canzoni che condividono i luoghi, le atmosfere e i personaggi, il musicista, scrittore e regista intreccia vissuto e finzione per raccontare una storia in equilibrio tra ombra e speranza, morte e rinascita. Sullo sfondo si alternano città e paesaggi mitteleuropei, tappe del viaggio dell’io narrante ma anche dell’artista, che per scrivere il romanzo e i testi dell’album si è recato a Praga, Vienna, Parigi e sul Lago di Bled in Slovenia presso il Grand Hotel Toplice. Ne abbiamo parlato con lui.
Che differenza c’è tra gli “angeli della morte” e il “facilitatore di suicidi”?
Direi che sono due figure totalmente agli antipodi. Sia nell’accezione originaria di “angelo della morte” con la quale si tratteggiava l’immagine di figure soprannaturali incaricate nella tradizione biblica di portare la morte come una punizione divina, sia nell’accezione più “moderna” che viene usata per fare riferimento a quegli individui (in genere medici e infermieri) che diventano carnefici dei propri pazienti manifestando la crudeltà di intenti tipica di un serial killer, ci troviamo di fronte a un concetto del tutto antitetico al ruolo che riveste, in questo ambito, il protagonista del mio romanzo. Il cosiddetto “facilitatore di suicidi” è infatti una figura profondamente empatica, portata a sentire in modo troppo intenso il dolore degli altri e in particolare il richiamo di coloro che, stanchi di vivere, riescono inconsapevolmente a rintracciare i suoi passi riconoscendo in lui un possibile “tramite”, un traghettatore di anime smarrite in grado di accompagnarle verso “una nuova vita che verrà”. Un uomo che però resta sempre e solo un uomo, coi propri limiti e contraddizioni. Una figura profondamente in lotta con il proprio sistema etico e alla ricerca di un difficile equilibrio tra il coraggio di esserci per chi ha bisogno di lui e la profonda angoscia ingenerata dal peso del non potersi esimere dal fare ciò che si configura come dono e condanna assieme.
Il suicidio non è un tema facile da trattare, come è nata l’esigenza di dedicarvi un romanzo, ma anche un album?
Il tema del suicidio è il fil rouge sul quale si erge tutta la narrazione che si sviluppa però intrecciando numerose altre tematiche nell’economia di un romanzo dal ritmo anche molto serrato dove al tema principale vanno sovrapponendosi una serie di accadimenti che portano il lettore a esplorare luoghi fisici e della mente grazie all’azione innescata dai fatti narrati. In modo ancor più radicale il tema si fa inapparente all’interno del disco dove la parola suicidio o riferimenti allo stesso, pur navigando sempre nell’ipertesto, non compaiono mai in modo esplicito. Il tema del suicidio è quindi una sorta di presenza che accompagna il viaggio del lettore/ascoltatore così come accompagna da sempre me nel momento in cui mi trovo a scrivere e a comporre. C’è qualcosa di profondo, oltre all’esperienza personale di aver perso persone care per quel motivo, che mi spinge a confrontarmi con questa particolare dimensione di cui racconto nel tentativo di toglierà così dall’ombra del tabù e della paura che non è mai foriera del clima adatto a “essere d’aiuto” per chi, quel tipo di problema, lo sta vivendo dal vero.
Come si integrano i due percorsi?
Musica e narrativa sono due fronti del mio percorso artistico profondamente connessi e quasi inscindibili. Ho sempre scritto di ciò che suonavo e viceversa in una continua dialettica basata sul confronto fra queste due forme. Si tratta della mia personale risposta a una spinta creativa ineludibile che mi ha portato a mettere in relazione questi due mondi come fossero due strumenti al servizio della stessa storia, dello stesso scenario artistico e della stessa volontà di raccontare.
Come riescono i personaggi a convivere con questo lato oscuro?
Credo che ognuno di noi debba fare i conti con un qualche tipo di lato oscuro. Il più delle volte decidiamo di non aprire questo dialogo nel tentativo, spesso vano, di non alimentarli. Quando però il darkside si fa troppo ingombrante o diviene uno scomodo coinquilino della propria esistenza si fa inevitabile aprire con lui un confronto. Negarlo sarebbe a quel punto potenzialmente dannoso. Credo fermamente che solo nell’accettazione di sé e dei propri lati più scomodi, risieda la vera consapevolezza. Una consapevolezza salvifica e indispensabile a ricollocare i propri demoni, a dar loro un ruolo portandoli alla luce con le migliori intenzioni. Accettando di non poter essere altro da ciò che la natura ha scelto per noi possiamo quindi trovare anche la via per trasformare il nostro “lato oscuro” in un dono.
Con cosa devono confrontarsi i personaggi?
Una domanda dagli infiniti possibili risvolti alla quale posso rispondere sintetizzando quello che è un approccio generale. Una dinamica ben rappresentata dal movimento continuo tra il sé e l’altro da sé, tra il confronto con la propria interiorità (e i tempi suggeriti idealmente dalla stessa) e il mondo che attornia i personaggi (con il proprio differente timing). Credo sia inscrivibile in questo tipo di dualità ogni genere di confronto dentro il quale si avvicendano i personaggi del libro.
Perché Parigi, il lago sloveno di Bled, Vienna e Praga?
Sono tutti luoghi profondamente legati al mio percorso e rappresentano le coordinate dentro le quali ho vissuto in questi anni costruendo il nuovo lavoro. Disco e libro si muovono, in un costante gioco di autofiction, tra quelle città poiché le ho profondamente vissute. Allo stesso modo ho incontrato e conosciuto ogni personaggio del libro (seppur trasmutato in alcune caratteristiche per esigenze narrative) così come ho attraversato in prima persona una porzione significativa dei fatti narrati nel libro. Realtà e menzogna, vissuto e immaginato si avvicendano ininterrottamente in quello che è l’affascinante gioco dell’autofiction o, come mi piace definirlo, del “raccontarsi immaginando”.
Elisa Cutullè
Foto: (c) Nicola Chiorzi