La virtuosità del tocco di Lucchesini

 

Formatosi alla grande scuola pianistica di Maria Tipo, Andrea Lucchesini s’impone all’attenzione internazionale giovanissimo, con la vittoria del Concorso Internazionale “Dino Ciani” presso il Teatro alla Scala di Milano. Suona da allora in tutto il mondo con orchestre prestigiose ed i più grandi direttori, suscitando l’entusiasmo del pubblico per la combinazione tra solidità di impianto formale nelle sue esecuzioni, estrema cura del suono, raffinatezza timbrica e naturale capacità comunicativa. La sua ampia attività, contrassegnata dal desiderio di esplorare la musica senza limitazioni, lo vede proporre programmi che spaziano dal repertorio classico a quello contemporaneo.

Convinto che la trasmissione del sapere musicale alle giovani generazioni sia un dovere morale, Lucchesini si dedica con passione anche all’insegnamento, attualmente presso la Scuola di Musica di Fiesole, di cui è stato fino al 2016 direttore artistico. Tiene inoltre frequenti masterclass presso importanti istituzioni musicali italiane ed europee, tra cui il Mozarteum di Salisburgo, ed è frequentemente invitato nella giuria dei più importanti concorsi internazionali, oltre a far parte dal 2008 degli Accademici di S. Cecilia. Nel 2017 ha ideato per gli Amici della Musica di Firenze il progetto artistico Fortissimissimo Firenze Festival, con l’obiettivo di dare spazio – anche attraverso nuove modalità organizzative – ai giovanissimi talenti italiani. Recentissima la sua nomina alla direzione artistica dell’Accademia Filarmonica Romana.

Lo abbiamo incontrato in occasione del Meisterkonzert a Schloss Albrechtsberg, nell’ambito dei Dresdner Musikfestspiele 2019.

 

Quale è il Suo rapporto con la Germania e con il panorama musicale tedesco?

Quando ho vinto il concorso Dino Ciani nel 1983 ho iniziato subito un’attività internazionale. La Germania è stata, forze, la nazione che mi ha accolto nel migliore dei modi. Ho suonato moltissimo in Germania, trovando sempre un pubblico molto attento e musicalmente formato, anche in piccoli paesini. Suonare nell’ambito dei Dresdner Musikfestspiele in questa sala meravigliosa è semplicemente perfetto.

 

In base a quali criteri è stato composto il programma della serata?

È una sintesi dei miei interessi più forti degli ultimi anni. Le due parti, in cui si divide il programma della serata sono disponibili su due CD pubblicati questa estate.
La prima parte vede un accostamento abbastanza inusuale, anche se particolare, tra 6 brani di Scarlatti e 6 brani scritti da Luciano Berio. L’idea di alternare i brani è nata, in effetti da Luciano Berio: un modo per collegare mondi lontanissimi. Anche se i pezzi sono stati scritti in epoca diversa, hanno diverse strutture comuni. In questo modo, attraverso le composizioni dei due autori, si inizia il racconto delle tecnica per tastiera. Quando Berio ha proposto l’idea, siamo partiti dai suoi 6 pezzi, tra loro già molto diversi, sia come caratteristiche che come approccio alla tastiera, ed abbiamo cercato, tra le oltre 500 sonate di Scarlatti, quelle che potessero prestarsi al progetto. Il risultato è, secondo me, sorprendente perché, a volte, si passa a un autore all’altro senza rendersene conto.

Nell seconda parte c’è la Sonata di Schubert, scritta nel suo ultimo anno di vita, momento fertilissimo dal punto di vista delle composizioni. Mi sono avvicinato a Schubert da poco e rappresenta, per me, un mondo ancora da scoprire. Sono *arrivato tardi* a questo autore immenso perché, prima, ho ascoltato e suonato più a fondo Beethoven.  Schubert non si è fatto trascinare da Beethoven: lo ha ammirato, ma ha mantenuto una sua identità musicale diversa, ma altrettanto importante, profonda e significativa per la storia della musica.

 

Cosa significa Berio per lei?

È stato, sicuramente un incontro speciale. Mi ha insegnato tanto, aprendomi un mondo che non conoscevo a fondo. La figura di Berio, in Italia, è stata una figura importantissima, in quanto lui era uno dei pochi che indicava una strada per i musicisti in Italia.

 

Chi altro l’ha formata musicalmente?

La mia formazione è iniziata molto presto, essendo nata in una famiglia di musicisti. Mio padre proveniva dal mondo del jazz, influenzando anche i miei primi ascolti.  Già all’età di 5 anni, però, mi sono sentito particolarmente attirato dal pianoforte e mio padre, intuendo certo talento, mi insegno come suonare alcuni pezzi di musica leggera. Appena un anno dopo ebbi la fortuna di andare a Firenze in Conservatorio a farmi sentire da Maria Tipo e incominciare a studiare con lei. Probabilmente una delle grandi fortune della mia vita. È rimasta, anche la mia unica insegnante, cosa impensabile al giorno di oggi. Infatti quando vedo i ragazzi che oggi intraprendono gli studi musicali, il loro percorso didattico prevede almeno due o tre insegnanti prima di diplomarsi e, dopo il diploma a cercarne altri per perfezionarsi.

Io ho avuto la fortuna, come detto, di incontrare una persona che non solo mi ha insegnato come suonare, ma anche come comportarmi nell’ambiente musicale.

 

Anche Lei ora, oltre all’attività concertistica, ricopre il ruolo di docente. Differenze e similitudini tra i ruoli?

Per me è un dovere. Ho ricevuto così tanto dalla mia insegnante che, se posso almeno restituire una parte, sono felice.  Cerco di trasmettere ai miei allievi anche la mia esperienza in campo concertistico, perché, quando si è concentrati esclusivamente sullo studio, certe dinamiche non sono facilmente intuibili: le differenze tra il suonare in una sala piccola e una sala grande, da solista o con orchestra.

A me piace insegnare perché vedo i miei allievi crescere e migliorare,

 

 

 

Elisa Cutullè

 

 

 

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