La delicatezza de La Traviata

 

Considerata, assieme a Il Trovatore e Rigoletto, parte della «trilogia popolare» di Verdi,  La Traviata  si basa sull’opera teatrale, La signora delle Camelie, di Dumas figlio.

Non ebbe, come sperato dall’autore, tuttavia un successo alla prima del 1853 al Teatro La Fenice di Genova: da un lato, si temeva fosse la scarsezza degli interpreti mentre, dall’altro, probabilmente l’argomento alquanto scabroso: la relazione di un nobile di una cortigiana.

Verdi operò alcune modifiche alla versione originale: per evitare l’eliminazione definitiva di alcune scene dal libretto (scene che, dalla censura, erano state modificate o eliminate nelle rappresentazioni del 1855, si decise di spostare l’ambientazione dal XIX secolo al XVIII secolo.

Ben Baur, nella rappresentazione presso lo Staatstheater di Saarbrücken, ambienta la “sua” traviata scenograficamente a cavallo tra un XIX secolo e un tempo indefinito. Questa impalpabilità temporale viene ripresa da Uta Meenen nei costumi e Lilian Stillwell nella coreografia. Da un lato, persiste il chiaro riferimento storico ma con sprazzi, fugaci e strategicamente inseriti, che congelano l’attimo temporale, ponendolo in una monade. Sono i momenti in cui, lo spettatore, rimane con il fiato sospeso, leggermente confuso per la mancanza di cardini, mancanza che, impercettibilmente, si trasforma in àncora.

Che Violetta Valery (Valda Wilson), sia destinata alla morte è chiaro fin dall’inizio: la bolla temporale che racchiude gli ultimi momenti di vita, inizia con la flebile Violetta, che perisce. Seppur malata di tubercolosi, Violetta sembra sanissima: guance rosee, esuberanza e attitudini civettuole. La prostituta vuole inserirsi nella società, elevare il suo stato, purificare l sua posizione sociale. Tantt’è che, con estremo piacere, apprende dell’invaghimento di Alfredo Germont (Sungmin Song). La sua indole, tuttavia, non le fa godere di questa relazione in maniera, posata, riservata, anzi: lo annuncia ai quattro venti e riprende il suo vecchio amante, il barone Duphol (Stefan Röttig) di non averla coccolata abbastanza, disinteressandosi del suo stato di salute. Questa platealità sentimentale, a porta nel mirino di Giorgio (Peter Schöne), che cerca in tutti i modi di ostacolare la relazione, facendo una paternale a Violetta e spiegandole perché, il tutto, non è possibile.

Nonostante il tema, la malattia e la morte, siano temi «importanti», l’occhio di Braun pone l’azione sotto una capsula, ovattata: quasi come se tutta la violenza, il dolore e il peso degli oneri sociali, fosse divenuto un’essenza, una Anlehnung (accenno), che però rimane sempre in sospeso. È una sospensione, tuttavia, catartica e docente al tempo stesso, un attimo di vigore intuitivo. Una lotta continua tra la vita (di Violetta) che finisce la vita, all’esterno che continua, va avanti. Tutto scorre.

Merito anche dei dettagli di ogni singolo aspetto scenico, di luci e suoni nonché interpretativo. Una messa in scena che lascia, nella memoria il brindisi del Libiamo ne’ lieti calici  [intonato da Violetta, Alfredo, Flora (Judith Braun), Gastone (Algirdas Drevinkas), il Barone, il Dottore (Hiroshi Matsui), il Marchese (Markus Jaursch) e dal coro] ed il duetto, Un dì, felice, eterea , mirabilmente interpretato da Sungming Song e Valda Wilson (poca croce molta delizia).

Una compiuta metafora della malattia fisica e sociale dell’opera, ancor oggi attuale.

 

Elisa Cutullè

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