TORRE DEL LAGO – 64° FESTIVAL PUCCINIANO – 100 E NON LI DIMOSTRA! IL TRITTICO TORNA CON SUCCESSO SUL PALCOSCENICO DEL GRAN TEATRO GIACOMO PUCCINI

 

Attesissimo, e non solo per la ricorrenza del centenario dalla prima esecuzione avvenuta il 14 dicembre del 1918 al Teatro Metropolitan di New York e replicata in Italia l’11 gennaio 1919 al Teatro Costanzi di Roma, Il TRITTICO torna sul palcoscenico del Gran Teatro Giacomo Puccini di Torre del Lago nella 64° edizione del Festival Pucciniano.

E’ decisamente impegnativo l’allestimento di tre opere così diverse tra loro per ambientazione, costumi e voci che scegliere di metterle in cartellone è una scommessa non da poco.

Ma non poteva mancare qui dove Puccini ha vissuto e dove le sue spoglie mortali riposano nella sua casa nella quiete di quel lago che tanto ha amato e che ha rappresentato per lui rifugio e ispirazione.

Ad occuparsi dell’allestimento il teatro dell’Opera di Stato di Bucarest: pregevole la scelta di una struttura unica capace di trasformarsi e adattarsi alle tre storie del Trittico offrendo per ognuna quelle suggestioni indispensabili a contestualizzare musica e parole di così grande spessore.

Forse più di altre opere del Maestro lucchese il Trittico deve essere “assaporato” con grande attenzione perché racchiude in sé le molteplici anime del suo Compositore giunto alla sua maturità umana ed artistica in un momento storico particolarmente delicato com’è quello del primo conflitto mondiale.

Comprensibile quindi la sua accorata esternazione: “se non finisce la guerra, cosa ne farà il mondo della musica?”.

E’ il Tabarro, ovvero La Houppelande, un atto unico di Didier Gold, ad attirare per primo la sua attenzione: più che dall’atmosfera cupa e disperata del dramma, è il suo “colore” davvero parigino a colpirlo: la Senna, i personaggi grigi, violenti e senza speranza, la vita errabonda sul barcone di Michele, quell’epilogo quasi fatalmente inevitabile nell’economia di una storia senza prospettive.

E se forse l’idea di rappresentarlo da solo sfiora la mente di Puccini, già agli inizi dell’anno successivo scrivendo all’amico Vandini preannuncia: “Suor Angelica, altra opera che

sto maturando...”.

Suor Angelica, l’opera preferita, quella che lo riporta alla vita monastica della sorella Iginia, suor Maria Enrichetta, amministratrice (e ne era già stata badessa) nel monastero di Vicopelago, sulle colline lucchesi. Vivo e appassionato il ricordo dell’anteprima avvenuta nel 1917 proprio nel convento: “…Raccontai loro, con incerta trepidazione e con tutte le precauzioni e le delicate sfumature inspirate dall’ambiente e dall’auditorio, l’intreccio alquanto scabroso del libretto.

Erano tutte attente, tutte commosse e con qualche lacrimuccia esclamavano compunte e timide ma sincere: – Poverina, poverina! Come fu disgraziata! Dio misericordioso certo l’ha accolta in cielo e le ha perdonato. Cattiva quella zia così dura… Oh, la mamma che non ha veduto il suo bambino prima che quello morisse!

Si direbbe quasi che le anime dei bimbi indugino a volare in Paradiso, se non ricevono prima il bacio della loro mamma! – Ed altre frasi tenere e commoventi. Io credevo che si scandalizzassero e che mi venissero fuori con qualche uscita di stupore, mi aspettavo anzi, col riserbo di quelle anime pure e timide, un qualche cosa che sapesse di rimprovero, di riprovazione per il troppo ardimento dell’intreccio… Invece trovai soltanto della pietà, della generosa simpatia cristiana aulente di verace ed edificante sentimento religioso. E quando finalmente mi congedai, le monachine mi fecero ala, ed arrivato in fondo alla scala, volsi lo sguardo e le vidi tutte in fila in una spontanea disposizione scenografica tutta vivezza ed espressione, quale nessun coreografo sarebbe mai capace di immaginare, e le nostre coriste e ballerine (Dio mi perdoni la profanazione) tanto meno di eseguire.

Il 1917 è anche l’anno di Gianni Schicchi come risulta da una lettera a a Tito Ricordi: “Ho anche

finita una breve trama su Gianni Schicchi”.

Lo spunto della trama di Gianni Schicchi è dantesco (Inferno XXX 31, 42-45) ma non va ignorata un’altra fonte più minuziosa e doviziosa di particolari, tutti finti nel libretto, pressoché sconosciuta. Si tratta di un brano tratto dal Commento alla Divina Commedia D’Anonimo fiorentino del secolo XIV per la prima volta stampata a cura di Pietro Fanfani, tomo I (Bologna, Romagnoli, 1866).

Nella mente di Puccini le tre opere costituiscono un unicuum indivisibile: è un ideale percorso dalla dannazione alla salvezza, dalle fosche tinte del Tabarro a quell’ironia piena di saggezza del Gianni Schicchi passando in quel labile confine della redenzione che va oltre il peccato di Suor Angelica.

Elementi importanti per chiunque intenda affrontare la regia di queste opere e che, nel caso specifico di questa messa in scena, sembra non essere stata presa in considerazione almeno nel Gianni Schicchi.

Entriamo nel dettaglio: Ferenc Anger, direttore artistico del Teatro dell’Opera di Budapest, è stato molto attento sia nel Tabarro che il Suor Angelica a dare ad ognuno dei personaggi una giusta caratterizzazione, cosciente di come in questo mosaico di individualità ognuno rappresenta un elemento imprescindibile per lo svolgersi della vicenda e nella relazione con gli altri personaggi. Del resto è Puccini a chiederlo senza mezze misure: il suo senso del teatro non ammette personaggi secondari o inutili; ognuno ha la sua funzione, ognuno ha la sua importanza e sulla scena ogni dettaglio è essenziale al risultato finale. L’equilibrio, l’armonia sulla scena determina la comprensione dell’opera e quindi il suo successo.

Così è stato ne Il Tabarro dove la messa in scena ha creato un affresco credibile ed emozionante, dove i personaggi si sono rivelati in tutta la loro disperata umanità e dove ogni dettaglio è stato funzionale ad esaltare il dramma di quell’umanità “di sotto”, quella che, giustamente, ha posizionato al di sotto della scenografia demandando la parte superiore ai più fortunati.

Così è stato anche in Suor Angelica dove l’elemento individuale trova il suo completamento nella dimensione corale giacché il convento di clausura nega il diritto all’individualità. Un delicato gioco di rimandi nei ruoli e negli abusi che questi ruoli possono avere all’interno di una comunità religiosa come del resto nella vita laica. Bella la scelta del finale, finalmente lontana da quelle sdolcinate e poco credibili che spesso vengono adottate alla ricerca di facili consensi: potente e simbolico, essenziale ed efficace, crea quella giusta atmosfera nella quale il “miracolo” è solo la logica conseguenza di un percorso di “espiazione” per nulla toccato da quel gesto estremo così umanamente comprensibile. Unico neo per quest’opera la Zia Principessa, disegnata alla stregua di una prostituta di terz’ordine con quell’abito e quel trucco così accentuato. Non serviva in alcun modo per restituirci la sua cattiveria e la sua perfidia farla truccare di fronte alla disperata Suor Angelica che ha appreso da lei della morte del figlio: la sua imperturbabilità, il suo assoluto distacco, così come indica il libretto, sono sufficienti a delinearle la personalità.

Dove invece ci è sembrato che il regista abbia abusato del suo ruolo è in Gianni Schicchi, opera delicatissima pur apparendo quella più facile da realizzare. Ironia non fa rima con grottesco, farsesco, grossolano: in quest’opera Puccini profonde un grande rispetto per coloro che, a torto, sono ritenuti inadeguati, marginalizzati perché non rispondenti agli standard della società. La sua è un’analisi spietata dei prototipi di una società ipocrita e opportunista (quella del XIII secolo come quella del suo XX secolo e, non diversa, del nostro XXI secolo), piena di luoghi comuni e di stereotipi privi di sostanza. Che usi il tono del sorriso (anche sarcastico talvolta) non sposta di un millesimo di millimetro il valore di denuncia e di riprovazione verso quei modelli che ben conosce e altrettanto bene immortala attraverso questo gradevole passo dell’Inferno dantesco.

Tutta l’opera si regge sul delicato equilibrio tra il paradosso di quella gente “antica” arroccata in privilegi e potere, e quella “nuova” rappresentata da Gianni Schicchi

 

Vien dal contado? Ebbene? E che vuoi dire?
Basta con queste ubbie grette e piccine!

….

Basta con gli odi gretti e coi ripicchi!
Viva la gente nuova e Gianni Schicchi!

 

Sono le parole di Rinuccio, da sempre innamorato di Lauretta la figlia dello Schicchi, ma ahimè esser del casato dei Donati, gente nobile di Firenze, gli precluderebbe la possibilità di sposarla se non ci fosse di mezzo un testamento a favore dei frati anziché della famiglia.

Alla luce di tutto ciò, a che pro impiantare un assurdo Buoso Donati incarnato da un orso gigante di pezza, scrivere il testamento su fogli che escono dal sedere dell’orsetto, comunicare attraverso un telefono e, quel che è davvero peggio, fare del gioco dialettico tra i personaggi, una sorta di caciara gratuita e inutile?

Gianni Schicchi non è una farsa e seppure lo fosse non avrebbe quegli ingredienti!

Ci dispiace perché l’equilibrio che nelle altre due opere è rigorosamente tenuto in considerazione salvaguardando forma e contenuto, in quest’ultima è venuto a mancare facendo perdere quel sapore di condanna ad un sistema per trasformare questo piccolo gioiello in una insipida farsa senz’anima.

Abbiamo parlato a lungo della regia perché ci è sembrato importante offrire il nostro punto di vista, ovviamente soggettivo, sulle scelte registiche che, negli ultimi anni, sembrano talvolta sopravanzare gli obiettivi del compositore per cercare soluzioni autoreferenziali e sensazionalistiche.

Ad aiutare le scene, come abbiamo detto originali e pertinenti, ha contribuito molto il disegno di luci di Valerio Alfieri che ha sottolineato con efficacia i momenti emotivi più significativi rappresentandoli con discrezione e intensità.

Musicalmente abbiamo assistito ad una interpretazione dell’Orchestra Regionale Toscana, per la prima volta al Festival Puccini, davvero notevole, grazie anche alla sensibilità del direttore, il M° Jacopo Sipari di Pescasseroli che ha saputo cogliere, di ognuna delle tre opere, l’anima più profonda restituendola attraverso una esecuzione molto partecipata dell’orchestra.

Rispettoso della partitura, Jacopo Sipari è apparso talvolta così intensamente rapito da restarne quasi prigioniero senza tuttavia precludersi la possibilità di “interpretare” quelle note che risuonano, con diversa intensità, nel cuore e nella mente di ogni direttore d’orchestra dando luogo a letture anche molto diverse tra loro.

Del resto, dalle sue parole, l’approccio a questa trilogia di così grande valore: “ E’ un rapporto molto particolare. Io sono una persona estremamente credente e ho sempre fatto della mia fede la colonna portante della mia vita. Il Trittico ha molti elementi che hanno a che fare con la nostra “umana – divinità” dove la fede, verso Dio, verso se stessi o gli altri, svolge un ruolo fondamentale. Un capolavoro assoluto, un trattato di sociologia emozionale, un libro che non si finisce mai di leggere nello strenuo tentativo di comprenderne l’infinita profondità. Come nella Divina Commedia, dall’ “infernale”, opprimente e tetro Tabarro nasce il piccolo fiore di Suor Angelica, che narra di un peccato mortale e della salvezza finale per mezzo della grazia divina, il “Purgatorio” di Puccini; infine, in Gianni Schicchi libertà e vita che ricordano il Paradiso. E’ davvero difficile dire quale delle tre mi piaccia di più, anche perché le ho sempre percepite come un blocco unico, un percorso musicale verso la vita che deve essere apprezzato e vissuto nella sua integrità. Posso però confessare che Suor Angelica, grazie a questo concentrato di spiritualità umana così vicina a noi da lasciare senza fiato, con questa incessante ricerca di salvezza attraverso la fede, con questa esaltazione dei sentimenti d’amore più veri, è delle Tre quella che parla in modo più forte al mio cuore. Gianni Schicchi invece è quella per cui mi si richiede maggiore concentrazione proprio per il carattere assolutamente diverso rispetto alle altre due”.

I tre cast, costituiti prevalentemente da giovani interpreti dell’Accademia del festival, ha visto nelle star, specie quelle femminili, i suoi punti di forza.

Per Il Tabarro decisamente deludente Florin Estefan, Michele, dalla voce troppo vibrante ed usurata per dare nerbo e personalità al personaggio. Meglio il tenore Vitalij Kovalchuk, Luigi, lirico spinto come i tenori del passato, che compensa qualche limite con una grande passione ed una voglia di essere quel personaggio così amabile nella sua fragile personalità. Brava Silvana Froli, Giorgetta, che mostra di non aver perso verve e potenza vocale, molto brava Annunziata Vestri nei panni di Frugola. Non meno merita ricordare anche gli altri intepreti: Veio Torcigliani, il Talpa, Luca Micheli, il Tinca, Francesco Napoleoni, un venditore di canzonette, Alberto Petricca e Micaela Sarah D’Alessandro i due amanti.

Per Suor Angelica, grandissima l’interpretazione di Annunziata Vestri della Zia Principessa; raramente abbiamo avuto il piacere di gustare quella parte con così grande piacere.

Bella e molto interiorizzata l’interpretazione che Donata D’Annunzio Lombardi fa di Suor Angelica per la quale il dramma della morte del figlio è trasferito con molta discrezione e quasi con pudore come del resto i momenti precedenti dove sembra prevalere un bisogno a tacere piuttosto che a esternare.

Non all’altezza, specie in apertura, l’interpretazione di Elena Kanakis, la suora Zelatrice, mentre generalmente positive le interpretazioni delle altre interpreti: Paola Leveroni, la Badessa, Donatella De Caro, la Maestra delle novizie, Michaela Sarah D’Alessandro, Suor Genoveffa, Veronica Tello, Suor Osmina, Marina Gubareva, prima cercatrice, Ai Awata, seconda cercatrice, e tutte le altre.

Buona la prova del Coro del Festival Puccini diretto dal Maestro Roberto Ardigò come pure quello delle Voci Bianche diretto da Viviana Apicela.

Gianni Schicchi vede indiscusso protagonista Bruno De Simone che unisce una grande vocalità ad una eccellente presenza scenica dando vita ad un grande Gianni Schicchi che domina la scena.

A fianco, ironica e arguta, la Lauretta di Elisabetta Zizzo ci regala con la celeberrima romanza “O mio babbino caro” un piacevole momento di bella musica e di buona interpretazione.

Non meno positiva la prova di Danilo Formaggia, Rinuccio. Austero e compassato, vocalmente piacevole, Alessandro Ceccarini, Ser Aniantio di Nicolao, il notaio. Meritano di essere menzionati anche gli altri membri del cast che, al di là della interpretazione scenica dettata dal regista, hanno dato una buona vocalità: Donatella De Caro, La Zita, Alberto Petricca, Gherardo, Anna Paola Troiano, Nella, Alessandro Biagiotti, Betto, Davide Mura, Simone, Filippo Lunetta, Marco, Anna Russo, La Ciesca, Andrea Del Conte, Maestro Spinelloccio, Massimo Schillaci, Guccio, Andrea De Campo, Pinellino.

Cast invariato per la replica del 25 agosto con l’unica sostituzione di Danilo Formaggia con Alessandro Fantoni nel ruolo di Rinuccio.

 

Stefano Mecenate

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