Shakespeare, con le sue opere, è sempre riuscito a criticare politica, società e convenzioni sociali in una tal maniera da suscitare sempre interesse e rispetto.
Difficile, pertanto, misurarsi con i suoi parametri e le sue ambientazioni. Ragion per cui, ogni qualvolta si inizia a reinterpretare una sua opera si corre il rischio di crearne una nuova versione eclatante o di snaturarla completamente nella sua natura. Spesso la linea di confine è così sottile, da rendere ancora più arduo un’interpretazione artistica chiara. Il compositore del XX secolo, Frank Martin, fu influenzato nella sua formazioni da compositori come Cesar Frank e Gabriel Faurè e, solo intorno agli anni 40, ormai cinquantenne, ritiene di essere riuscito, finalmente, a trovare la propria dimensione di compositore, allocata tra la musica imponente e strutture astratte che gli permettessero di trovare la giusta unione tra parole e musica. Secondo Martin l’opera ideale per tentare questo esperimento era la tempesta di Shakespeare.
Ma l’esperimento, in sé, come bisogna immaginarselo?
Taluni dicono come un Shakespeare intriso di Wagner, Debussy, Gershwin e Britten? Difficile da immaginare? Allora, varrebbe la pena vedere lo spettacolo, per la messa in scena di Lorenzo Fioroni, presso la Staatstheater di Saarbrücken.
Lo spettatore viene accolto da uno stemma proiettato sul tagliafuoco, che, all’inizio, lascia spazio ad una scena (che poi si rivelerà essere l’isola) in cui troneggia, sullo sfondo (scenografia: Ralf Käselau), un enorme albero lussureggiante. In primo piano uno tavola imbandita, vuota, con dei panni stesi. Ma, panni non solo, bensì schermo per la proiezione di immagini che riguardano feste, famiglia, allegria. Forse non proprio allegria, perché in tutte le immagini proiettate, c’è un elemento disturbatore, quella sensazione indefinibile, che qualcosa non sia proprio perfetto con le immagini e che ci sia qualcosa dietro. Questa sensazione, quasi di disagio, permarrà in tutto lo spettacolo insinuando, nello spettatore, la domanda continua “Cosa sta succedendo? Posso credere ai miei occhi? Posso credere alle mie orecchie?”. Manca, allo spettatore, anche il tempo per riflettere, perché, viene catapultato, immediatamente, in questa isola circondata dalla tempesta. Nessuno rimane illeso da questo occhio del ciclone: ne viene coinvolto, assorbito e cercando, inutilmente, solo di respirare. Inutilmente.
Durante una tempesta Alonso, re di Napoli (Hiroshi Matsui), fratello di Prospero (Peter Schöne), naufraga sull’isola insieme a tutto il suo gruppo. Ma la tempesta non è un caso, perché è stato proprio Prospero a causarla, per vendicarsi del fratello che ne aveva usurpato il trono e poi lasciato in balia delle onde. Ad aiutare Prospero in questo caso è Ariel, spirito dell’aria, un po’ birichino e, per alcuni versi, dalle caratteristiche di Puck. In questa versione Ariel non è una persona, bensì interpretata dal coro. Frank Martin stesso non era molto convinto di questa sua scelta stilistica che, dal punto di vista puristico, non si rivela ottimale, nel riprendere lo spirito birichino e confabulatore. Del resto, come renderlo possibile se ad interpretare uno spirito è un intero coro? Fioroni decide di farlo con le coreografie del coro (a cura di Gaetano Franzese), che rievocano il turbinio e la giocosità di questo spiritello impertinente. Anche il personaggio di Calibano (Markus Jaursch), lo schiavo maniacalmente innamorato di Miranda (Carmen Seibel), figlia di Prospero, è smunto: mancano i tratti di perversione e rudezza, tanto messi in evidenza da Greenaway o Brooke, e lasciano spazio ad una macchietta, incolore, che risulta essere solo un tassello in una storia dedicata tutta a dare attenzione a Prospero. Anche la storia tra Miranda e Ferdinando (Roman Payer), è messa in secondo piano, o relegata in un angolo.
Tutto verte e gira intorno a Prospero e al suo rapporto con la magia, con la sua voglia, il suo desiderio e la sua necessità, di influenzare il mondo, prendersi rivincita su malintesi del passato e crearsi una propria dimensione.
La trasposizione musicale di Martin che, riduce il testo e inserisce sottolineature e temi musicali, non vuole offrire una soluzione, un punto di vista definitivo o risolutorio dell’opera de l suo concetto. È un puro e semplice spaccato, di una momento e di un personaggio: spetta allo spettatore attribuirvi una valenza, più o meno storia, più o meno psicologica.
Già Peter Brooke aveva riconosciuto la malleabilità della produzione shakespeariana e la difficoltà, per un regista di trasporre il tutto per il palco, senza esporsi, mettendosi in primo piano ed assumendo una posizione.
Quello che Fioroni sembra aver fatto con la sua produzione, è quello di lasciare allo spettatore la decisioni di interpretare gli eventi: in scena si vedono scene/ non scene, personaggi che sono umani o pesci, costumi (Katharina Gault) che sono contemporaneamente eleganti e trascurati, personaggi che sono despoti ma insicuri.
Una tempesta che non fornisce allo spettatore una soluzione, bensì lo lascia, dopo lo spettacolo con ancora più domande e spunti di riflessione. Forse bisognerebbe togliere la maschera non maschera e capire quale è vera faccia della realtà?
Greenaway direbbe: la risposta è nelle mani delle grandi assenze.
Prossimi appuntamenti:
Febbraio; 2, 7, 9
Marzo: 4, 14, 22, 25
Elisa Cutullè
Elisa Cutullè