Mancava da tempo in cartellone questa opera di un giovane Puccini reduce dall’insuccesso dell’Edgard che aveva messo in crisi la sua permanenza in Casa Ricordi.
Sucessiva alla Manon di Jules Massenet (gennaio 1884), questa lettura del celebre romanzo dell’abate Antoine François Prévost Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut, è esattamente ciò che Puccini risponde a Marco Praga preoccupato del confronto col più celebre compositore: «Lui la sentirà alla francese, con cipria e i minuetti. Io la sentirò all’italiana, con passione disperata».
Un’opera decisamente disperata nell’assurdo disallineamento che caratterizza i due protagonisti, il cavaliere Renato Des Grieux, un timido, povero e innamoratissimo ragazzo, e la giovanissima Manon Lescaut, avida di ricchezza e di vita e disposta per entrambe ad accettare compromessi di ogni genere.
Li unisce la passione e, forse, un intimo bisogno di protezione e calore umano che appartiene, per diverso motivo, al pregresso vissuto di entrambi ma ciò non basta ad impedire un succedersi di eventi drammatici ed un epilogo ferale.
L’allestimento presentato a Pisa è quello del Teatro Goldoni di Livorno in collaborazione con Pisa e Rovigo che vede regia, scene e costumi affidati a Lev Pugliese reduce dal successo della riapertura dello storico New York City Opera con un’acclamata produzione di Tosca.
Vediamo come ci presenta la “sua” Manon: «Destinata al convento, Manon ha anelito di vita, anelito alla libertà, e fugge. E’ la Sehnsucht romantica, l’anelito verso qualcosa di mai attinto, la ricerca di qualcosa indefinito nel futuro, il desiderio ardente, la dipendenza dal desiderio, il costante anelito che porta l’essere umano a non accontentarsi di ciò che raggiunge o possiede, ma lo spinge sempre verso nuove mete. Il desiderio del desiderio, doloroso desiderio verso l’irraggiungibile, doloroso struggimento che si prova nel non poter raggiungere l’oggetto del desiderio. Quindi, il vuoto, la mancanza totale: il deserto. Deserto, nel suo significato etimologico di abbandono “… che non ha punto di connessione, cioè vuoto d’ogni cosa”. Il vuoto dell’anima e il vuoto intorno. Manon si muove in un “buco nero”, in un vuoto che si riempie di contenuti e significati durante tutta l’opera ma che torna ad essere il vuoto totale nel tragico finale.
Manon passa dalla creazione di un sogno, dall’illusione di riempire il vuoto con l’innamoramento per Des Grieux, prima e poi con l’opulenza garantita dalla ricchezza di Geronte, allo smarrimento. Inizia il suo viaggio verso l’ignoto incamminandosi lungo la banchina del porto.
L’ultimo atto è il disfacimento del sogno. La bramosia di vita l’ha condannata alla morte.
In un lungo flashback alla fine della vita, Manon rivive il proprio vissuto contornata da un coro “sbiadito” di anonimi e insignificanti individui, uniformati da un costume che li avvicina all’immagine di manichini piuttosto che di esseri umani. Un mondo formato da una massa indistinta, in contrasto con i ricordi più intensi di Manon».
Una Manon “spartana” o come si usa dire adesso, “minimalista” senza trine e arredi sofisticati, ambientata in un tempo senza tempo e in un “non luogo” che fa unico centro di attenzione la vicenda in sé, ovvero il dramma che essa contiene fin dagli esordi. Un dramma universale e atemporale: ieri come oggi e forse anche domani esisteranno amori come quello tra Manon e Renato travolgenti e letali nel loro parossistico evolversi verso un epilogo senza ritorno. Se ci è negato il piacere di una scenografia più coinvolgente, va dato atto a Lev Pugliese di aver saputo raccontare con efficacia questa storia, lavorando sugli interpreti per plasmarli anche attorialmente verso quel libretto e quella partitura che così bene descrivono i loro stati d’animo e il contesto nei quali si muovono.
Musica meravigliosa quella di Manon che non capita di frequente di ascoltare e che l’Orchestra della Toscana, diretta da un coinvolgente Maestro Alberto Veronesi, che ben conosce gli spartiti pucciniani e la sua anima più profonda, ha saputo proporre con grande professionalità e con quella passione che da sempre la caratterizza facendone ormai una realtà estremamente piacevole da ascoltare.
Voce interessante, robusta e sonora, quella della soprano Rachele Stanisci che appare però non propriamente adatta alla Manon dei primi due atti nei quali l’ingenua e irrefrenabile voglia di vivere, la gioventù, la civetteria e la passione costituiscono gli elementi salienti della sua personalità. Emerge invece nei due atti successivi quando l’elemento drammatico prende il sopravvento e la sua vocalità ha modo di dare il meglio delle sue capacità, trionfando nell’ultimo dove il pubblico le riconosce tutti i meriti di una grande interpretazione.
Le è a fianco un bravo Gianluca Zampieri dalla voce forte e dal timbro chiaro, tradito in alcuni momenti da una eccessiva foga interpretativa che ne penalizza la cesellatura del personaggio la cui personalità, certamente esuberante per l’età e le circostanze, resta comunque quella del timido e profondo giovane innamorato di un sogno di felicità e di serenità.
Forse troppo stretto nei panni di Lescaut, il sergente delle guardie del Re, Sergio Bologna “tracima” dal personaggio rendendolo troppo presente e “pesante” nella storia che lo vorrebbe, forse, in virtù della sua personalità ambigua, più leggero e sfuggente. Del resto la sua vocalità è indiscussa e in ruoli di questo genere è decisamente sovradimensionata e comprensibilmente difficile da contenere.
Buono il Geronte di Carmine Monaco D’Ambrosia, sempre pertinente sia vocalmente che scenicamente, e meritevoli di considerazione, pur nella limitatezza dei ruoli, Alessandro Ceccarini, l’oste e il Comandante di Marina, Didier Pieri, il Maestro di ballo e il lampionaio e Giuseppe Raimondo, Edmondo.
Complessivamente buona la prova del coro Ars Lyrica diretto dal Maestro Marco Bargagna
Stefano Mecenate