Fabio Ceresa e la passione di dirigere

Premiato ai recenti International Opera Awards di Londra come «Miglior nuovo regista», Fabio non è stato presente alla cerimonia, in quanto aveva una prima a Seoul. L’abbiamo incontrato per conoscerlo meglio.

 

Cosa ha significato, per te, ricevere questo premio?

È stata la conferma che mi sto muovendo, nella mia estetica, nella direzione giusta, soprattutto per me, che sono all’inizio della carriera, in cui non si sa se si osa troppo o non abbastanza e si è alla ricerca della giusta via di mezzo per intercettare i gusti sia del pubblico, che della critica. Riassumendo: da un lato una conferma importante e dall’altro uno stimolo per continuare su questa strada. Quando ci saranno momenti di malinconia ed insicurezza, il mio pensiero andrà a questo premio e mi sentirò rinvigorito, come Asterix con la pozione magica

Regista e librettista: condividi questa descrizione di te?

Io cerco, come Cromwell, di avere la testa in cielo ed i piedi per terra. A me piacciono: sognare, la vita dell’artista, le luci del palcoscenico e scrivere nella mia cameretta. Sono cosciente, però, che tutto ciò deve avere un risvolto pratico e tecnico. È per questo che, sul sito, mi descrivo come un artigiano perché, ritengo, che la nostra professione sia, di base, artigianale e si impara «a bottega». Un direttore d’orchestra, per esempio, può studiare al conservatorio; un cantante può avere un maestro di canto, gli scenografi e i costumisti possono seguire dei corsi per imparare a padroneggiare le competenze. Per un regista, invece, è più complicato. Come si fa ad insegnare la regia? Che cos’è la regia? È pur vero che esistono dei corsi di regia, ma questi sono soprattutto per la prosa. Per l’opera, invece, la situazione è diversa, più delicata; ragion per cui, secondo me, la regia d’opera non si può insegnare, bensì solo imparare sul campo. Un po’ come faceva Leonardo da Vinci o Michelangelo nel Rinascimento. La mia «bottega» è stata La Scala di Milano.

 

Come ti sei avvicinato al mondo dell’opera?

A 16 anni ero già molto appassionato d’opera: spendevo le paghette per comprarmi i CD di «Un ballo in maschera» o «Le nozze di Figaro». Mi ricordo che ci portarono a La Scala per vedere una prova di «Elisir d’Amore»: per me è stato come entrare in un tempio. Alla fine della prova tutti i miei compagni di classe si erano annoiati a morte mentre io mi trovavo un fiume di adrenalina, avevo la pelle d’oca e la sensazione di aver vissuto qualcosa che mi avrebbe cambiato la vita.

Ce ne è voluto però prima di farne una ragion di vita. Infatti, ho fatto tutt’altro: ho studiato all’università e mi sono laureato in Giurisprudenza. Dopo la laurea, grazie ad una cara amica che, all’epoca lavora alla Scala e che ora è basata a Francoforte sul Meno, ho avuto la possibilità di fare uno stage alla Scala.

Un po’ di fortuna e un po’ di bravura sono riuscito, come si dice a Napoli «a entrare di secco e mettermi di chiatto» e sono rimasto alla Scala per ben 9 anni (dieci stagioni). L’aspetto più bello, forse, è che all’inizio sono entrato in ufficio regia come l’ultimo degli stagisti e ne sono uscito come «aiuto regista» per il «Fidelio» inaugurale della stagione 2014/2015.  L’ho vissuto come entrare dalla porta di servizio e uscire dalla porta principale.

 

Quando è nata la necessità di fare anche qualcosa all’estero?

In realtà è stato l’estero che ha chiamato me. È sempre difficile «decidere» che carriera fare. Qualche anno fa mi è stato insegnato che la carriera si fa con i «no» e non con i «sì» per cui avrò detto i «no» e i «sì» giusti al momento giusto.  Quando stavo facendo il «Fidelio» ho ricevuto una telefonata da Rossella Cucchi, che conoscevo da anni, che mi propose di allestire per la stagione successiva il «Gugliemo Radcliffe» a Wexford. Quello è stato l’inizio della carriera internazionale.

 

Sei stato in diverse nazioni (Korea, Inghilterra, Germania per citarne alcune): il pubblico è diverso?

In realtà non dipende dalle nazioni, bensì di teatri in sé e per sé. In Italia, per esempio, ho fatto lo stesso spettacolo a Firenze e a Torino: i primi mi hanno detestato, i secondi mi hanno adorato e mi hanno anche candidato a un premio.

Quello che cambia, nelle nazioni, è il senso dell’ironia. Ho notato che in Corea, per esempio, nonostante la differenza di culture, il senso dell’umorismo è molto simile: il pubblico ha riso esattamente nei punti in cui io l’avevo previsto ed applaudito nei momenti in cui io mi aspettavo un applauso. In Irlanda, invece, ridono in momenti inaspettati, lasciandomi di stucco.

 

Hai una predilezione per qualche compositore o qualche opera?

Da italiano, ovviamente, il Belcanto, Verdi, Puccini… difficile fare distinzioni. Se si parla della macro produzione operistica mondiale, ho una passione sconfinata per la Scuola Napoletana dell’Opera Barocca, quindi la prima del Settecento.  Feo, Leo, Sarro, Vinci, Porpora, Vivaldi, tanto per citarne alcuni.

 

Quando ti trovi da spettatore a teatro, riesci a lasciare da parte le tua analisi da «addetto ai lavori»?

Purtroppo, la mia professione si fa sentire: noto l’effetto luce in ritardo, il PVC tirato male, il segno a terra. Non riesco mai a staccare completamente, anche se non mi impedisce di emozionarmi. In realtà vado a vedere spettacoli non miei con l’istinto del ladro. Verdi diceva che “il talento è la capacità di imparare”. Io sono convinto che anche dallo spettacolo più brutto si possa trarre una qualche lezione, per cui, con ogni spettacolo che guardo, cerco di arricchire le mie conoscenze di regista.

Credo che, per essere un bravo regista, bisogna, prima di tutto, essere un bravo spettatore. Se si impara a capire cosa piace al pubblico, cosa funziona per il pubblico, allora si riesce a fornite un servizio. Se, invece, si insiste ad allestire qualcosa che piace solo a noi, il tutto diventa una mera azione solipsistica.

Come diceva Metastasio: “Il regno stesso a regnare ammaestra”.

 

Cosa fai nel tuo tempo libero?

In realtà, rispecchio il cliché del vecchio regista d’opera italiano perché nella mia playlist ho solo musica classica. Se mi capita di ascoltare in radio, sento anche delle canzoni che mi piacciono ma spesso non conosco i nomi degli artisti. Questo solo per quanto riguarda l’aspetto musicale.

Sono un gran lettore, guardando Netflix e andando in palestra per mantenermi in forma. E mi piace anche tanto giocare a Candy Crush (ride).

 

Elisa Cutullè

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