Giulio nel suo labirinto non si perde

Giulio Ricciarelli (23) Kopie

Vale ancora la pena ancora oggi, parlare ancora dei criminali nazisti? Ha senso portarli in tribunale? Si ha diritto di dimenticare una delle pagine più buie della nazione più popolata d’Europa. La risposta è sì e ce ne parla Giulio Ricciarelli, regista del film Im Labyrint des Schweigens, il film uscito un anno fa che è riuscita ad affascinare e lo farà ancora (uscirà in Italia nel 2016) anche le generazioni più giovani.

Abbiamo incontrato Giulio per voi.

 

Come mai hai deciso di spostarti da Milano a Monaco di Baviera?

Non ho avuto molto potere decisionale in questo caso. In effetti è stata la mia famiglia, o meglio mio padre a decidere di trasferirsi in Germania. Mia madre è tedesca e quindi sembrava in un certo qual senso naturale che la mia vita si svolgesse in Germania.

Ad un certo punto poi ho deciso di iscrivermi all’Accademia d’arte Drammatica di Monaco (la Otto Falkenberg Schule). Come studente ero abbastanza bravo, ma non ero molto sportivo. Quando avevo 10 anni avevo una maestra di latino che faceva di tanto in tanto degli spettacoli. Io avevo un certo talento per le lingue e, da italiano, mi veniva facile pronunciare il latino in maniera corretta. Ciò risulto nel fatto che finivo a fare la parte principale in tutti questi piccoli spettacoli. Da quella volta ero coinvolto più o meno in tutte le recite scolastiche che si organizzavano. Così, poco prima della maturità, decisi di dare una possibilità a questa mia predisposizione scelsi la suola in cui era difficile entrare, ponendo il tutto quasi come una sfida a me stesso. Quando ce l’ho fatta non ci è voluto molto per trasformare il tutto in passione.

Ho vissuto il tutto in maniera molto serena, gioiosa. Recitare è diventato sempre più importante per me.

Se avessi dato ascolto a mio padre avrei dovuto scegliere un percorso di studi che mi avrebbe portato a diventare avvocato o medico. Queste erano, per lui, figure professionali rispettate e che avevano un posto sicuro. Anche se il mio percorso è stato diverso, è comunque un ruolo rispettato

 

Da attore hai lavorato per il teatro, cinema e TV. In che cosa differiscono per te queste esperienze?

C’è una grande differenza. L’attore di teatro ha una sfida continua, ad ogni spettacolo, perché deve comunicare al pubblico presente in sala una certa emozione in tempo reale ed essere in grado di ripetere lo stesso processo per ogni sera. A volte, come attore, ci capita di trovare l’interpretazione perfetta durante le prove e poi fare fatica a ricreare quel momento per altre (innumerevoli) volte. Fare l’attore a teatro è un lavoro molto bello, molto fisico e che dà delle emozioni immediate.

Quando lavori per il piccolo e il grande schermo , cambia l’approccio dell’attore che deve cercare di “sedurre” la telecamera: il movimento o l’atteggiamento da assumere non hanno lo scopo di attirare il pubblico di attirare l’attenzione attraverso la telecamera. Uno degli aspetti positivi del cinema è che quando una scena ti viene questa rimane lì per l’eternità, non hai la necessità di ripeterla più volte. In questo campo è importante che ci sia un ottimo rapporto tra regista e attore, anche perché manca la reazione immediata del pubblico a quello che si sta facendo.

Personalmente ritengo che il cinema in sé, e nello specifico il lavoro di attore o regista cinematografico siano dei ruoli molto affascinanti.

Il tuo primo ruolo sul grande schermo è stato nel 1997 in Rossini- Oder die mörderische Frage wer mit wem schlief. Che ricordi conservi?

Non era primo il primo ruolo, ma sicuramente era uno dei primi. All’epoca ero abbastanza giovane e questo ruolo per me è stato un po’ come una scuola: guardavo cosa faceva chi era introno a me e cercare di assorbire il più possibile. Per me è stata un’esperienza molto bella e anche il film è diventato bello secondo me.

 

Quando è nato in te il desiderio di passare dietro la telecamera?

15 anni fa ho fondato una casa di produzione cinematografica per poter fare i miei progetti. Ho fatto quattro film da produttore prima di capire quanto tempo assorbire questo ruolo e capire che non lasciava molto spazio per fare altro. Allora circa 10 anni fa inizia a fare regia cominciando con dei cortometraggi uno dei quali, Vincent, per esempio ha vinto anche il Grifone d’Argento nel 2006 al Giffoni Film Festival.

In genere si pensa che un attore non sia in grado di diventare regista e, perciò, l’ambiente non è di molto supporto quando si prende una decisine del genere. Sembra quasi che la gente dimentichi quanti grandi registi, prima di diventare registi, siano stati anche attori.

Per il mio primo lungometraggio ho scritto anche il copione assieme a Elisabeth Barthel. Per cui doppia funzione.

È stata una sfida con me stesso che mi ha permesso di trovare una dimensione in cui mi trovo bene: è un lavoro continuo e complesso perché si lavora a 360° occupandosi di tutti gli aspetti che sono importanti in un film.

 

Das Labyrinth des Schweigens- cos ci racconti?

Quando si lavora su un film con una tale base storia le ricerche non sono mai abbastanza. Noi abbiamo lavorato con uno storico del Fritz Bauer Institut a Francoforte sul Meno per accertarci che quanto raccontato da noi corrispondesse a quanto accaduto.

Volevo fare qualcosa che doveva essre fatto, di cui il pubblico avesse bisogno. Quando ho incontrato Elisabeth Bartel, lei mi raccontò la storia che stava dietro ai processi ed io ho capito che su questo grande tema tedesco, o meglio mondiale, c’erano 15 anni che erano completamente sconosciuti. Nell’immediato dopoguerra le persone volevano dimenticare, non volevano parlare di quanto successo e ancor meno chi era stato vittima delle sevizie naziste. E gli alleati, piuttosto che ricostruire il morale della nazione, sembravano più concentrati a trovare nuovi nemici. Solo nel 1962 vengono riportati alla luce documenti riferiti al periodo nazista ed è proprio in questo momento di svolta di coscienza che abbiamo voluto ambientare il racconto della nostra storia.

Ho voluto sfatare il mito che ci fossero pochi cattivi a creare la distruzione: bisogna che il popolo tedesco accetti il fatto che si trattava di una macchina di distruzione di cui faceva parte un gran stuolo di persone.

 

Il ricordo più caro che conservi di questo film?

Quando l’abbiamo girato c’erano giorni di disperazione, di lacrime e altri di gioia. La cosa che mi ha toccato di più è stato quando durante il montaggio di quasi 3 ore, il film non era ancora né perfetto, né nella sua versione finale.. ma era vivo.

 

 

 

Elisa Cutullè

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