Platée- La dura verità

 

Platée

Jean Philippe Rameau, il musicista francese che ha vissuto a cavallo del XVIII secolo, ma che ha visto la sua produzione teatrale scivolare nell’oblio nel corso degli ultimi due secoli. È pur vero che il suo nome, per quanto riguarda la teoria musicale dell’armonia, continua a godere di un grande prestigio, ma ciò, in qualche modo non si è esteso alle sue produzioni, nonostante tra i suoi estimatori ci fossero nomi illustri come Debussy, Camille Saint-Saens e Paul Dukas. Si è dovuto attendere i primi anni 80 per vedere in scena, dopo ben 300 anni dalla nascita dell’autore, per vedere Les Boreades , la sua ultima composizione, messa in scena nel 1982 ad Aix-en-Provence.

Platée, l’opera-balletto, portata in scena da Stijn Celis per lo Staatstheater di Saarbrücken per la stagione 2015/2016 (Prima il 16 gennaio 2016), era ai tempi di Rameau un’opera che godeva di una prestigio e di una ricezione da parte di pubblico e critica molto positiva. Basta ricordare che “l’avversario” Jean Jacques Rousseau definì l’opera semplicemente “divina”.

In Germania fu rappresentata per la prima volta nel 1901 in una versione molto “tedeschizzata” e, nella versione originale, solo nel 2011 presso la Deutsche Opera am Rhein di Düsseldorf.

Stijn Celis, che per la prima volta si è cimentato nella regia di un’opera lirica, mette in evidenza l’attualità del pezzo, basata, soprattutto, nel potenziale nascosto nella musica che permette, al di là di limiti di spazio e temporali, di esprimere sentimenti, facendo in modo che, nonostante i 250 anni di “vita” Platée abbia molta più affinità con le opere moderne che le opere del XIX secolo.

Ma di cosa si parla?

È la storia di un gigantesco scherzo ai danni di una ninfa, non proprio bella, anche se l’intento originario era, almeno da quanto aveva in mente il poeta Tespi (Ulrich Cordes), di mettere in scena uno spettacolo in cui sia gli uomini che gli dei venissero presi in giro. Momo (Stefan Röttig), personificazione del sarcasmo e della mania di censurare, deve prendere posizione e suggerisce una piccola variazione: perché non tessere qualcosa attorno a come Giove (Markus Jaursch) riesca a guarire la sua sposa Giunone (Judith Braun) dalla gelosia. La stessa, in effetti, estremamente gelosa, rischia di distruggere il raccolto di contadini e vignaioli per le continue tempeste che manda sulla terra. Amor (Elena Harsanyi) chiede di potervi partecipare perché le storie senza amore, secondo lei, non possono avere una buon fine.

Mercurio (Carlos Moreno Pelizari) e il re Citerone (James Bobby) cercano di pensare ad un modo per far guarire Giunone dalla propria gelosia: entrambi giungono alla conclusione che l’unico modo sia quello di far credere a Giunone che il consorte si sia innamorato di una persona brutta. Solo così Giunione si renderà conto dell’insensatezza della sua gelosia. La persona ideale sarebbe la ninfa Platée (Thomas Michael Allen), davvero brutta, ma convinta di essere irresistibile. Così Mercurio informa la ninfa della nuova conquista che è davvero contenta e convinta di poter sposare la divinità. Alla festa interviene, incaricata di canti e balli anche la follia (Ytian Luan) per mantenere calda l’atmosfera. Giunone è stata però attirata ad Atene e, quando vede Platée, scoppia a ridere rendendosi conto, come previsto, dell’insensatezza della propria gelosia. Così Giove ha di nuovo ammansito la sua Giunone e a Platée, derisa da tutti, non resta altro da fare che rifugiarsi di corsa nelle paludi.

A qualcuno è potuto sorgere il dubbio che, al giorno d’oggi, le divinità greche e romane non facciano parte della conoscenza di base di tutti, eppure, in questa versione di Celis nessuno di sentirà spaesato, perché le diverse divinità vengono sempre brevemente introdotte e forniscono il contesto allo spettatore.

Nonostante il tutto duri quasi 3 ore (del resto di tratta di un’opera con prologo e tre atti) il pubblico del teatro, si diverte, applaudisce, ride di cuore e apprezza in maniera evidente il quadro di insieme che Celis e Musin hanno portato in scena con l’assistenza di Nicole Martini e Miriam Balli è, al tempo stesso, essenziale ed esagerato: satiri sugli zoccoli, copricapi divini, costumi da bagno e tacchi evidenti, accessori sproporzionati. In scena c’è un tripudio di colori, di stili, di arti: un turbinio di eventi e input, caratteristico dell’epoca di Rameau, ma incredibilmente attuale, che coinvolge il pubblico e non fa mai perdere il contato visivo con il pubblico. I momenti di danza sono il momento in cui il movimento si unisce alla musica, sono quegli istanti intesi di pausa dal turbinio dei sentimenti, sulle note di toni musicali più soavi e armoniosi (direzione musicale: Christopher Ward). Perché “intesi”? Perché, pur senza urtare la sensibilità del pubblico, non è possibile rilassarsi sul serio quando in scena ci sono i ballerini che cercano di farsi concorrenza l’un l’altro presentando momenti di gloria solistica o appaiono vestiti con un solo pacchetto regalo… da scartare???

L’attualità, cruda ma vera, di Platée è l’affiliazione della società agli ideali di bellezza e amore, quasi come se chi non risponda ai canoni di bellezza, non abbia il diritto di essere felice in amore. Eppure, nella prima, Platée si prende una rivincita simbolica: a causa di virus influenzale il protagonista Thomas Michael Allen non è più in grado di cantare la sua parte e così, come comunica l’intendente Schlingman alla fine della pausa, sarà proprio Ulrich Cordes, l’interprete di Tespi, a cantare la parte di Platée dal lato del palco. Almeno questa volta Platée ha avuto l’ultima parola.

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