Il Flauto Magico di Mozart è una delle opere di Mozart più conosciute ed amate dai bambini. Sarà probabilmente per Papageno, il suddito che cattura gli uccelli per la regina della notte? Certo è che la messa in scena di Achim Freyer per la Semperoper di Dresda è una messa in scena che va dritta al cuore dei bambini.
Sul palco c’è una bella favola messa in scena: Freyer, che ha curato anche scenografia e costumi, ritorna all’essenzialità del conflitto tra bene e male, con colori sgargianti, costumi che nascondo le forme o zeppe vertiginose. Eppure la storia e l’intenzione ha ben poco di “infantile”: è lo spirito leggero che pervade l’opera ma che affronta i temi di desiderio di potere, invidia, forza d’animo e amore. Il flauto magico non si vede mai… si sente solo.. quasi fosse un sogno. È come se il regista volesse insinuare nel pubblico il dubbio in merito al confine sottile tra fantasia e verità, tra saggezza e stoltezza, bramosia e magnanimità.
Tra gli assistenti musicali che hanno aiutato gli artisti a prepararsi per lo spettacolo anche l’italianissima Daniela Pellegrino. L’abbiamo incontrata per voi.
Quando ti sei avvicinata per la prima volta alla musica?
Ho iniziato a studiare il pianoforte quando avevo 7 anni, perché avevo visto la mia vicina suonarne uno. A dire il vero io, bambina, avevo sfacciatamente chiesto un pianoforte a mia madre che, calma, mi rispose che mi avrebbe mandata a lezione di musica. Ho incominciato proprio con lo studio classico, facendo il solfeggio per 6 mesi. Un inizio un po’ faticoso ma con l’insegnante giusta, una bellissima esperienza che mi porto poi ad entrare in conservatorio.
Di origini siciliane, hai studiato, tra l’altro anche a Bologna. Cosa ti ha portato a Dresda e quando sei arrivata?
Frequentavo a Bologna la scuola dell’opera per cantanti lirici e mi stavo specializzando nel ruolo di accompagnatrice al piano. Il corso è durato due anni e in quel periodo in cui stavo frequentando io la scuola, venne l’ex direttore artistico di Dresda per offrire una settimana di scorso specializzato.
Io ho seguito questo Master con lui per ben due volte, e la seconda volta fu proprio lui a propormi di andare a Dresda.
All’epoca non avevo idea di cose fosse un teatro di repertorio visto che in Italia abbiamo le stagioni teatrali con i programmi che variano. All’poca pensare che in un teatro per stagione ci potessero essere sui 100 spettacoli di una stessa opera era un concetto non proprio usuale.
Ho chiesto al direttore in che cosa consistesse il mio ruolo poi. Mi rispose che avrei studiato un po’ di meno e suonato un po’ di più ed ho colto la sfida.
Così sono arrivata a Dresda senza parlare tedesco e senza sapere cosa dovessi veramente fare. IL programma era lo “Young Artist Program”, riservato normalmente solo ad attori e cantanti ma che era stato esteso, a Dresda anche a ai pianisti.
L’inizio, lo ammetto è stato un po’ traumatico. Durante la prima settimana mi forzavo ad essere paziente con me stessa, perché mi ci voleva tempo a capire la nuova dimensione (anche perché non parlando tedesco non capisco). Dopo la prima settimana però, non parlando ancora tedesco, mi sentivo stressata perché non riuscivo a capire le semplici domande dell’addetto della mensa. Stessa situazione quando cerchi di prendere un taxi.
La barriera linguistica è stata, in effetti, uno degli elementi di maggior preoccupazione/blocco anche perché mi impattava, in un certo senso, anche nei miei studi. Il mio referente per gli studi mi affidò tanto di quei spartiti, chiedendomi in quanto tempo ce la facessi ad impararli. Tra questi ce ne erano alcune, come Elisir d’Amore che conoscevo benissimo ma anche una partitura di un’opera barocca, non una riduzione e anche Peter und der Wolf. Quando stimò una settimana rimasi perplessa, perché mi resi conto che i ritmi qui erano veramente frenetici.
Provenivo da Parma dove avevo svolto la funzione di maestro collaboratore durante il Festival Verdi. Ti veniva chiesto di conoscere l’opera per bene, ma ti veniva anche dato del tempo per studiarla.
Mi ricordo che un giorno il mio capo mi disse che aveva pensato di inserirmi nell’organico dell’orchestra. Era mercoledì e la prima lettura sarebbe stata venerdì e non esisteva lo spartito per la parte del piano. Avrei dovuto leggere il tutto dalla partitura, dove il rigo per il pianoforte è quasi invisibile, considerando che ci sono circa 25 righe diverse. Nella mia mente già sentivo il direttore che mi chiedeva una nota e io che facevo salti mortali a quale parte dello spartito si riferisse.
C’ è anche un altro ricordo che conservo di quel periodo. Stavo studiando da circa 8 ore in una sala prove, quando entrò un baritono. MI vide che stavo provando e si scuso per essere entrato. Quando mi chiese se tutto fosse a posto, scoppiai in lacrime. Il cantante rimase perplesso dalla mia reazione e chiamò direttamente in ufficio per chiedere aiuto. AL che io, presa dal panico, lasciai la stanza e mi rifugiai un’altra sala. Fu lì che mi raggiunse il mio capo per chiedermi cosa ci fosse che non andasse. E fu proprio in quel momento che tutte le mie paure per questo nuovo ruolo sparirono nel nulla, perché il mio maestro mi mise molto a mio agio, rassicurandomi sul fatto che lo spartito era così nuovo che nessuno avrebbe preteso un’esecuzione perfetta al primo colpo.
Fu proprio quello il la che mi permise di capire che la perfezione assoluta non può essere pretesa al primo colpo e che è il risultato di una lungo lavoro, quando si conosce lo spartito alla perfezione e, forse, nemmeno allora, perché si troverà sempre un punto, un passaggio da migliorare o da fare diversamente.
Sono arrivata nel novembre del 2011, quindi 4 anni fa ormai. Era, per me, la prima volta in Germania in assoluto. Quello che mi colpì al mio arrivo era la luce della città. Non mi piace molto che l’inverno sia notte già alle tre di pomeriggio.
Il mio shock culturale è stato piuttosto positivo, perché ho apprezzato la precisione e la professionalità che ho trovato in Germania. Cose semplici, come sentire silenzio sul tram era rilassante.
Però devo notare che, dopo 4 anni, sono più elastica e a volte l’estrema precisione mi sembra pedanteria e/o esagerato.
Come è strutturata una settimana tipo per un maestro accompagnatore?
Il sabato pomeriggio e la domenica sono quasi sempre liberi, se non c’è qualche presentazione o qualche recita in cui devo essere presente.
Il nostro lavoro si forma di due elementi principali: le prove di regia e lo studio dei cantanti. Il pianista deve insegnare i ruoli ai cantanti.
In genere c’è una prova di regia di 3 ore (mattina o pomeriggio) e poi ci sono le prove con i cantanti 1-2 ore. Con i cantanti si fanno sia le prove per gli spettacoli o anche per migliorare un po’ la tecnica.
Qualche volta capita anche che suoniamo durante gli spettacoli, perché è previsto un pianoforte o uno strumento a tastiera.
Famiglia e lavoro: come funziona?
È difficile, anche perché mio marito, cantante lirico freelance, lavora in Italia e in giro per l’Europa. Purtroppo i collegamenti aerei diretti con Dresda sono minimi, per cui è impensabile che lui si possa trasferire a Dresda. Prima dell’estate, per esempio, lui era coinvolto in una produzione a Barcellona e faceva la spola da Roma. Facile poco problematico visto che d Roma c’è il collegamento aereo diretto con Barcellona. Da Dresda dovresti fare prima scalo in un altro aeroporto tedesco tipo Berlino o Francoforte.
Questa è anche una delle ragioni per cui penso che finito il mio percorso formativo/professionale a Dresda cercherò opportunità in posti meglio collegati. Non mi dispiacerebbe rimanere in Germania e, nello specifico, Berlino sarebbe una città che piace ad entrambi.
Ovviamente ci piacerebbe fare il nostro lavoro in Italia, ma attualmente non ci sono molte prospettive nel nostro campo. Molti cantanti lirici e musicisti italiani hanno sede fissa in Italia ma lavorano circa 10 mesi all’anno all’estero. È una di quelle situazioni in cui senti di lavorare ad un progetto ma sai che puoi sempre tornare nel tuo paese e che, terminato il progetto o la collaborazione, hai un periodo in cui rientri nella tua vita italiana.
È stato per me così quando ho collaborato con il Festival di Montpellier e poi sono rientrata a Roma. Al momento invece sono un po’ “spaesata”: ho casa a Roma ed ho casa qui, entrambe sono e non sono le mie case.
Pensando al termine casa è difficile dire cosa, attualmente, rappresenti per me: è un quadro mentale difficile da definire al momento.
Cosa ti manca dell’Italia?
Spesso sento i miei amici dire che in Italia si mangia meglio. È vero, ma non sono certo venuta in Germania per la cucina tedesca, ma, ammetto, mi manca davvero la qualità del pesce che mangiavo in Sicilia, quello sì.
Elisa Cutullè