“Nelle Langhe ci sono arrivata nel 1962, avevo ventuno anni e mio marito l’avevo conosciuto due mesi prima.
Era venuto in Calabria per incontrarmi e per organizzare matrimonio e trasferimento. Siamo stati insieme per mezz’ora, con le mie sorelle che controllavano che rimanessimo alla giusta distanza, e ci siamo dati appuntamento per il giorno delle nozze. Io ho detto subito di sì. Per me, se ve lo posso confessare, lui o un altro era uguale. E poi il Nord mi sembrava chissà che, magari lassù farà più freddo ma sarà un’altra vita, pensavo mentre mia madre terminava in fretta e furia il corredo.
Mio marito aveva ventidue anni più di me, appena più giovane di mio padre. Se mai si era concesso degli svaghi non aveva più l’età nemmeno per un ballo. Non si è mai lamentato, figurarsi,ma i sorrisi li ho contati sulle dita di una mano. Lavorare la terra e comprare qualche figlio, mi ripeteva sempre.”
Questa è la storia (inventata, ma che potrebbe essere vera) di Annarita Calogero, una “calabrotta” come si usava chiamare un tempo le donne di Calabria che, a partire dagli anni ’60, in un lento e silenzioso esodo, cominciarono lentamente ad abbandonare le campagne del Sud per ripopolare quelle Piemontesi. In Calabria le loro erano bocche che l’asfittica economia locale non riusciva a sfamare, in Piemonte c’era invece bisogno di braccia e di donne che portassero avanti le cascine dato che le donne piemontesi avevano a loro volta abbandonato le Langhe e le campagne inseguendo il sogno di una vita piccolo-borghese cittadina che la Fiat rendeva finalmente a portata di mano.
I due estremi d’Italia uniti dalle donne. Una storia poco nota la cui portata è difficilmente percepibile anche perché di questo esodo non esistono tracce evidenti dato che i cognomi dei figli di queste contadine del sud sono comunque cognomi piemontesi.
A raccontarle oggi è un bellissimo romanzo del collettivo di scrittori Lou Palanca, intitolato “Ti ho vista che ridevi”. Un libro che partito in sordina, grazie al tam tam del passaparola, sta conquistando migliaia di lettori e compare in decine di festival e presentazioni in giro per il Paese. Perché la storia delle “calabrotte” non è solo una fetta della storia d’Italia. Non attiene solo alla nostalgia per quell’Italia del boom che ci appare sempre più lontana ma è una storia che ha molto da insegnare anche a noi.
Carlo Petrini, fondatore di Slow Food scrive nel testo che introduce il volume che la lezione di questo libro è che: “ci salvano gli altri, sempre” e ricorda come se una volta erano le calabrotte a salvare le Langhe dall’abbandono e a contribuire al vero e proprio miracolo economico di quelle terre, oggi spesso sono le donne dell’est che sposano i pastori aquilani o i contadini del Sud che consentono la salvezza dallo spopolamento selvaggio di quelle terre: “Siamo tutti stranieri – dice Petrini – siamo tutti in cerca di salvezza, siamo tutti sulla terra di qualcun altro. Siamo tutti in attesa dell’invasione che ci salverà e ci porterà la soluzione che da soli non sappiamo inventare. Non importa se arrivano stremati sulle coste di Lampedusa, o sbarcano sicuri negli aeroporti internazionali; se passano il confine orientali nelle notti senza luna o arrivano a Torino stringendo una lettera d’invito per un evento che si chiama Terra Madre (…) non è necessario che impariamo quali e quanti sono gli infiniti modi che la Storia inventa per farci incontrare i nostri salvatori: dobbiamo solo imparare a riconoscerli, quando li vediamo arrivare.”
In fondo il modello Riace, cittadina che fa da sfondo a questa storia, rimane ancora un modello da studiare, specie per la salvezza di questo Sud che, come ricorda la Svimez, rischia la desertificazione non solo industriale.
Il libro
Negli anni ‘60 un’emigrazione individuale femminile raggiunge dal Sud il territorio delle Langhe, che le contadine stanno abbandonando per trovare la propria emancipazione nelle città. È un’emigrazione matrimoniale, che porta le “calabrotte” all’impatto con una lingua e un sistema di relazioni sociali differenti da quelli dei paesi d’origine. Ti ho vista che ridevi racconta una di queste storie. Dora è costretta ad emigrare da Riace per sposare un contadino delle Langhe e lascia alle cure della sorella il figlio che non doveva nascere. Quando scoprirà la verità, Luigi si metterà alla ricerca delle origini, della propria madre, dell’autenticità della propria biografia. Sarà un bacialé, un ruffiano che combinava questi matrimoni, il mediatore narrativo tra le pagine calabresi e i capitoli ambientati in Piemonte, dove Luigi cerca la propria madre naturale e incrocia una catena di figure femminili che da Dora conduce alla figlia, alla nipote militante No Tav e quindi ad una profuga siriana. Un romanzo corale, nel quale ciascun personaggio attraversa la propria solitudine scoprendo il senso della sua vicenda nella relazione con l’altro.
Lou Palanca è un collettivo di scrittura a “geometria variabile”. Con Rubbettino ha già pubblicato Blocco 52.