Quel cavaliere è proprio nero

Christiane Motter (c) Marco Kany(c) Marco Kany

Chi ha visto i trailer che lo Staatstheater avevo postato prima del 28 marzo, automaticamente sentiva il desiderio di vedere questo musical che si basava sulle musiche di Tom Waits che ebbe la sua prima in Germania nel 1990.

Una storia di Thomas de Quincey che si basa su una saga tedesca già ripresa da Carl Maria von Weber nella sua opera “Der Freischuetz”: un amore non accettato dal padre di lei, per cui lo spasimante non ha altra scelta che scendere a patti con il diavolo.

Una storia che, nella sua essenza si adatta al mondo del musical, eppure, l’opera, nella messa in scena di Daniel Pfluger, non è, come ribadisce la responsabile del teatro di Saarbruecken, Dagmar Schlingmann, non può essere considerato un musical nel vero senso del termine, in quanto è un po’ strano nella sua struttura e concezione.

Non tarderà molto lo spettatore a rendersene conto: niente coreografie o protagonisti che fanno i salti mortali per delle performance che combino danza e canto: coreografia ridotta all’essenziale, con movimenti di braccia a mo’ di bambola all’inizio e alla fine della rappresentazione. E questo è già tutto.

Un po’ fuorviante, e a volte perfino snervante, il bilinguismo, ovvero il ripetere in tedesco di quanto appena detto in inglese. Sembra quasi una lezione di English for dummies.

C’è un elemento disturbatore che si insinua nella psiche dello spettatore e che non lo abbandona fino alla fine: è come se si rimanesse sempre in attesa di un clou che fino alla fine rimane assente. La scenografia di Flurin Borg Madsen, a metà tra elementi degni di Alice nel Paese delle Meraviglie e di Las Vegas, conferisce quel tocco di musical, che però si perde quando la scena si sviluppa su due livelli.

Più che un musical è un esame di coscienza, un dramma psicologico trasporto per stereotipi: I personaggi mancano di spessore e appaiono a volte estranei al contesto: il cacciatore ricorda il villano del paese attaccato solo ai piaceri terrestri (viene da chiedersi come mai il padre voglia dare sua figlia Kaetchen in sposa proprio a lui); Wilhelm, lo scrivano, non ha polso, ideali o idee chiare e si lascia facilmente travolgere dal diavolo, impersonato da Roman Konieczny, che indossa una tuta aderente nera e deve camminare sbilenco.

Qualche spettatore, non convinto lascia perfino la sala durante la rappresentazione: nemmeno la musica e i testi di Tom Waits sembrano trasportare il pubblico.

Eppure, considerato nella sua totalità, questo esperimento off-Broadway del teatro di Saarbrücken si rivela positivo, portando lo spettatore a interrogarsi sull’eterna lotta dell’uomo: quella di voler essere accettati per come si è.

 

Elisa Cutullè

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