Abbiamo incontrato Angelo Molica Franco, Vincitore del Premio Nini Agosti Castellani per la miglior traduzione 2014.
Tradurre: un lavoro o è davvero passione?
Non vorrei apparire troppo pragmatico e scollarmi bruscamente dall’immagine – decadente e bellissima – del traduttore come un appassionato (soltanto) di letteratura, ma la traduzione letteraria è un mestiere o, come preferisco definirla, una professione. Nella radice della definizione c’è la risposta stessa. Occorre professionalità, preparazione, rigore, umiltà e competenza: tutte caratteristiche che la passione può arricchire ma non sostituire. Per cui, se messo di fronte alla dicotomia, rispondo che è un mestiere.
Come è nata la passione per il francese e la sua letteratura?
Per spiegare com’è nata la mia passione per la letteratura francese, devo compiere un passo indietro perché tutto insiste e parte dalla mia passione per la lettura, come strumento eversivo e insieme politico. Per me, infatti, leggere non è mai stato un passatempo o “soltanto” una passione, leggere per me è sempre stata una scelta, compiuta ovviamente con passione.
Per tornare, invece, alla domanda, la passione per la letteratura francese è nata dall’incontro con “L’educazione sentimentale” di Gustave Flaubert, nella traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli per gli Oscar Mondadori, a mio avviso la migliore tra quelle in circolazione. Terminata la lettura, mi sono chiesto come fosse quel libro in lingua originale. Lì, se devo rintracciare un momento preciso, ha cominciato a prendere forma l’alveo di una certa curiosità per il mestiere del traduttore letterario. Parafrasando Carducci, posso dire che la questione della lingua fu il prodromo della questione della carriera da traduttore.
Come è stato per te tradurre Mauvignier? Conosci l’autore già prima?
Conosco molto bene l’autore e ho letto tutti i suoi libri in francese e alcune traduzioni apparse in italiano. E ho avuto anche la fortuna di assistere ad alcune sue pièce a teatro. Tradurre Laurent Mauvignier è stato soprattutto un onore poiché è, tra gli autori contemporanei, quello il cui progetto letterario mi sembra il più coraggioso e originale. Laurent Mauvignier, che pure a fatica si potrebbe ascrivere in una corrente letteraria, possiede una sorta di patrimonio letterario invisibile, eppure così presente tra le sue righe, da cercare tanto nell’ipotassi così cara a Balzac o Proust, quanto in quella linea sotterranea che si situa tra Faulkner e Claude Simon, quanto ancora nella spinta in avanti, a ruota libera, che possiamo ritrovare in Thomas Bernhard; per non parlare dell’eredità da Koltès, Duras, Sarraute, e naturalmente Céline et Joyce. A partire da tutto questo, Mauvignier crea una lingua che è insieme decentrata, frammezzata e circolare, in un eterno ritorno che è tanto linguistico quanto epico, dato che è la parola il suo fulcro. La parola di Mauvignier, sgranata con consapevole pazienza, ruota attorno a un nodo oscuro ed è della sua impossibilità a rappresentare questo nodo che si carica il suo corpus testuale.
C’è qualche parte del romanzo che ha rappresentato una vera sfida per te?
I passanti è un romanzo a due voci. Racconta la violenza subita da Claire, attraverso due monologhi: l’uomo che le ha usato violenza e l’amica di sempre che abita dirimpetto la casa dove si è consumata la violenza e che non ha sentito nulla quella sera. I due personaggi sono accomunati da una stessa malaise di vivere: sono persone sole, dentro e fuori, prosciugate dalla vita, disseccate di speranza. Le difficoltà più grandi da superare le ho avute nella traduzione della voce del personaggio maschile. Mauvignier non è interessato all’aspetto morale o cronachistico dell’accaduto, lui non utilizza mai la parola stupro (viole) poiché ne parla per contrasto, per sottrazione, in trasparenza, attraverso il ritratto di due vite abbandonate dalla speranza: le vite accanto. Ma con l’allarme tipico della grande letteratura, Mauvignier fa un ritratto tanto umano, tanto vero dello stupratore da portare il lettore a non riuscire a condannarlo e odiarlo. Ecco la vera sfida è stata cercare di rendere anche in italiano l’odore di un personaggio così al di là delle aspettative, tenermi in quel bilico così sottile di cui si nutre la letteratura, in un linguaggio che presenta più livelli di lettura e che scarta la verità poco a poco, che seduce il lettore e che gli propone e fa accettare la verità della letteratura a scapito della realtà.
Quali sono, invece, i tuoi romanzi letterari preferiti?
Oltre al sopracitato “L’educazione sentimentale”, il primo libro in assoluto che mi ha folgorato, che mi ha attirato – felicemente vinto – nella vertigine della letteratura è “Storia di una capinera” di Giovanni Verga. Sebbene sia un romanzo che lo stesso Verga ha reputato minore (perché legato alla sua produzione precedente alla “maturità” del Verismo, e perché, in effetti, si tratta di un “romanzetto” epistolare di un centinaio di pagine), la sua intensità e il suo potere sono assoluti, inappellabili. Citerò adesso per memoria di giustapposizione tra le ultime letture – il solo ordine che mi è possibile – “Le voci di Berlino” di Mario Fortunato, “Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier” di Patrick Modiano, “Il posto” di Annie Ernaux e “Mio fratello” di Jamaica Kincaid.
Paul Ricoeur afferma che non c’è una traduzione perfetta: quale è il tuo approccio quando ti occupi di una traduzione?
Nel saggio di Ricoeur da cui è tratta l’affermazione scatenante la domanda, Il paradigma della traduzione, l’autore parte da un assunto fondamentale e cioè che la traduzione esiste, in quanto gli uomini parlano lingue diverse, ripercorrendo la diversità delle lingue di Von Humbdolt. La genialità delle parole di Ricoeur sta nell’aver saputo conciliare la pluralità delle lingue, che costituisce l’approccio di Antoine Berman ne L’épreuve de l’étranger del rapporto “del proprio con l’estraneo”, e la traduzione come “interpretazione di ogni insieme significante” di Georges Stainer con Dopo Babele riassumibile bruscamente con “tradurre è capire”. La pratica traduttoria richiede un empirismo costante ma vigile, e una spiccata capacità di modulare l’intuito al momento giusto. La spaccatura tra sourcier e cibliste in realtà è una spaccatura superata poiché si può essere fedeli tradendo, e si può tradire rimanendo fedeli: proprio come nella vita. “L’opera del traduttore” scrive Ariel Rathaus nella sua Nota del Traduttore alla raccolta poetica Lontano dall’Alzabandiera di Meir Wieseltier, “è dunque, in quest’ordine di idee, un incessante cambiamento di prospettiva dettato dalla realtà del testo, e il buon traduttore è un trasformista capace di vestire, alla bisogna, la maschera del rigoroso filologo o quella dell’intemperante interprete”.
Per ciò che concerne me, nel mio approcciarmi alla traduzione provo sempre a stirare fino al limite e oltre i concetti di rigore, umiltà, e precisione. Mi sforzo a che precisione e imprecisione, regola e sregolatezza insistano e coabitino sulla stessa linea, sulla stessa frase, sulla stessa parola.
Cosa significa per te aver vinto questo premio?
Nini Castellani Agosti non è stata solo una grande traduttrice, ma è stata l’antesignana di chi si batte e crede in questa professione. Sebbene alcune sue traduzioni siano datate dal tempo storico, non lo sono per il tempo della letteratura. La modernità delle sue traduzioni rimane, ancora oggi, impareggiabile. Vincere un premio intitolato a lei è per me motivo di grande orgoglio. La cosa, più di tutte, che mi rende estremamente contento è che solitamente i premi coronano una carriera di lungo corso, di traduttori già affermati e che – forse – non ne avrebbero bisogno. Nel mio caso, vincere un premio così importante a soli 30 anni e con una quindicina di traduzioni alle spalle, oltre che far ben sperare per il futuro, apre uno spaccato su tutti gli altri giovani traduttori che come me si impegnano al pari dei colleghi più navigati.
Elisa Cutullè