Che emozione rivedere gli spalti del gran teatro di Torre del Lago gremiti e quale ulteriore emozione vedere come l’inclemenza dei tempo non abbia agito minimamente da deterrente per il pubblico!
Madama Butterfly ha aperto la stagione: la mano di Renzo Giacchieri (regia, scene, costumi, disegno luci) si vede e bene in questo allestimento “minimalista” che festeggia i 110 anni dal debutto dell’opera. Niente che possa distrarre, niente che si ponga al di sopra della musica e del canto, unici e veri protagonisti di questa produzione: «Intendo – dice Giacchieri – far emergere gli aspetti più intensamente drammatici dell’opera, il senso di desolazione di una vicenda d’amore (unilaterale) e di una morte colta nella sua nudità, senza i veli di un oleografico Giappone odoroso di ciliegi in fiore e popolato di bamboleggianti finte geishe o i variopinti fondali di una linda casetta secondo le prescrizioni di un estetismo piccolo borghese rassicurante e consolatorio».
E così è stato, azzittendo i “mugugni” di chi si aspettava un super allestimento “3D”. Ma, ancora con le parole di Giacchieri: «I segni chiari, evidenti e puntuali del Giappone, così come i segni delle due culture contrapposte ed inconciliabili. Dove però la farfalla tradita non volerà verso un fondale dipinto, confondendo il suo sangue con il decoro laccato, ma libererà il suo dolore ancora vanamente cercando quel “fil di fumo”, volando sulle acque tranquille di Massaciuccoli così caro al Maestro, rendendosi in questo modo immortale».
A costo di apparire “di parte” e non lo sono, vorrei ancora lasciare a Giacchieri il compito di indicarci quella sua chiave di lettura che, ovviamente, condiviso e sposo perché profondamente legata ad un modo di sentire profondo e non convenzionale di un’opera ingiustamente criticata e sottovalutata fin dalla prima messa in scena: «E così torno a mettere in scena, dopo un quarto di secolo, Madama Butterfly nell’incanto di Torre del Lago in un nuovo spazio scenico ma sempre con l’emozione di sapere il Maestro dormiente per l’Eternità a cento metri di distanza. Anche in questa occasione ho mantenuto l’ispirazione ai grandi artisti giapponesi Hokusai e Horunohu e, per alcuni aspetti, al Teatro Kabuki (la pedana situata presso il proscenio, la presenza del Kuroko, movimenti tesi ed essenziali dei servi di scena).
Si faranno probabilmente ancora sentire quei maestri di teoria che negano alla nostra Madama Butterfly la validità per una rappresentazione all’aperto. Ostinati e perdenti visto il successo del pubblico che si riscontra ogni qualvolta la si allestisca. Affermano alcuni che Butterfly è una tragedia intima, una sventurata storia d’amore tutta interiore e, soprattutto, basata su un solo personaggio, Cio-Cio-San, la farfalla. Dicono non esservi passioni violente come in altre opere del maestro Lucchese: Cio-Cio-San è una quindicenne dolce ed ingenua i cui atti la famiglia disapprova e che l’uomo in cui crede ciecamente tradisce col massimo cinismo. Già, ma per questa “tragedia intima” Puccini compose una musica stupefacente che supera le problematiche sopra descritte, e poi i riferimenti ad un mondo en plein air sono evidenti e dichiarati in momenti clou “… sotto il gran ponte del cielo …” “… Somiglio la Dea della luna che scende la notte dal ponte del ciel …”.
Occorre altro?
Questa “tragedia giapponese” (come è indicato sul frontespizio della partitura) che, dopo le revisioni successive al non buon esito della prima scaligera ci arriva, sicuramente sovrasta come dicevamo, tutte quelle valenze relative all’ambiente e alla descrizione minuziosa di un Oriente da cartolina.
Dunque “opera tragica” in cui il supremo Inganno operato da un occidentale nei confronti di una donna-bambina figlia di cultura a lui sconosciuta, fa giustizia del facile rapporto Puccini musicista di vicende semplici, di vita vissuta al limite del sogno, in sintonia con gli umani sentimenti. No: Cio-Cio-San ha tutte le caratteristiche di un’antica eroina tragica che si ribella alla violenza su di lei – e su tutto ciò che lei rappresenta – perpetrata, con il gesto supremo. E con crudeltà tutta orientale (vero, principessa Turandot?). E dunque tutto questo cercheremo di chiarire nella nostra proposta: far emergere gli aspetti più intensamente drammatici dell’Opera liberandola da una oleografia che spesso ne imprigiona l’anima».
L’intento di Giacchieri è stato pienamente messo in atto, dosando con misura movimenti e azioni cosicché nulla risultasse di troppo, o falso, o inamidato.
A far da spalla a questa lettura, una direzione lenta e quasi sospesa che inizialmente lascia perplessi per poi trovare una motivazione proprio in questa cornice dove il tempo si fa da parte per lasciare il posto alla storia. La bacchetta del M°JoséMiguel Perez Sierra ha guidato l’orchestra del Festival in questa non facile lettura che ha interessato, ovviamente, anche i cantanti chiamati ad uno sforzo ulteriore rispetto ai normali tempi dell’opera.
E proprio tra i cantanti un primo significativo plauso va a Giovanni Meoni, un ottimo Sharpless vocalmente preparato e scenicamente efficace come efficace e piacevole Luca Casalin, un Goro non stereotipato e decisamente più credibile. Gradevole la prestazione di Renata Lamanda, una Suzuki amorevole ma non stucchevole, degna compagna di quella Ciò Ciò San che non è, secondo le indicazioni del regista, una perdente.
Qualche debolezza l’abbiamo riscontrata nei due protagonisti, Rame Lahaj – Pinkerton – e Micaela Carosi, Butterfly: entrambi non hanno espresso al meglio le loro potenzialità vocali incrinando la magia di quelle romanze che richiedono una perfetta interpretazione per volare alte come Puccini desiderava. Per entrambi non mancheranno prove d’appello nelle prossime repliche nelle quali potranno certamente dimostrare il loro reale valore.
Stefano Mecenate