Peer Gynt, poema drammatico in cinque atti del norvegese Henrik Ibsen, vide la luce nel 1867 ma solo alcuni anni dopo, per la messa in scena teatrale, fu arricchito delle musiche di scena di Grieg. Stijn Celis ha presentato a Saarbrücken l’anteprima del suo modo di vedere questa figura un po’ particolare.
Ibsen scrisse durante un viaggio in Italia. Il successo fu clamoroso tant’è che ad appena 14 giorni dall’uscita si è proceduti a una ristampa.
Il poema è nato come pura e semplice lettura: la rappresentazione in scena è una vera sfida a causa dei repentini cambi di ambientazione nonché scene temporalmente o geograficamente ampiamente dilatate. La storia è quella di Peer, un “antieroe” norvegese, che è troppo preso dal mondo dei sogni per vivere davvero la vita o, meglio, è incapace di vivere nel senso semantico del termine. Una brama di qualcosa di sconosciuto, di un’insoddisfazione cronica, lo spinge ad abbandonare Solveig, la donna che lo ama, per partire per un viaggio che lo porterà nei diversi angoli della terra. Eppure, alla fine, Peer torna nel suo paese natio e dalla sua donna.
Per citare S. D’Amico: “L’avventura di un personaggio irrequieto ed estroverso, un po’ Don Chisciotte e un po’ Faust” che, dopo molteplici esperienze e colpe, si salva col ritorno ai valori e agli affetti fondamentali.
A qualche spettatore italiano un passaggio musicale può sembrare noto: non a caso. Nel 2007 la Birra Tuborg ha realizzato in cui utilizzava proprio una versione remixata di “In the Hall of the Moutain King”. Non è un caso unico perché già nel 1965 un altro marchio culinario, questa volta l’Olio Sasso, aveva realizzato un carosello che aveva come Leitmotiv “Il mattino” dalla Suite di Grieg. Ma la presenza non si ferma al piccolo schermo: la musica ha ispirato anche “M- Il mostro di Duesseldorf” di Fritz Lang, “L’idiota di Dostovskji” di Akira Kurosawa, “scoop” di Woody Allen e più recentemente in “The Social Network” di David Fincher.
Una composizione atemporale ed eterna che anela, nella sua totalità, ad essere una simbiosi di teatro, danza e musica.
Non è la prima interpretazione della storia di Peer Gynt nella storia del balletto: già dal 1901 sono state create coreografie, con o senza la musica di Grieg.
Stjin Celis ha optato per una versione che prevedesse Grieg ma anche estratti delle “Peer Gynt Suiten” di di Harald Saeverud.
Nello spettacolo di due ore, lo spettatore ha potuto seguire la crescita di Peer, la sua vita e, per concludere la morte. La scenografia di Jann Messerli ricreava il freddo ambiente del nord: colori freddi, predominanza di blu e grigio, forme da ghiacciaio, luci realistiche. Ed è in questo ambiente che cresce Peer: è un bambino iperattivo che racconta alla madre le storie più fantastiche. Inizia un dilemma interno della madre: spronare il figlio o preoccuparsi dei grilli per la testa? Il tempo trascorre e Peer incontra Solveig durante un matrimonio ma la madre, interrompe l’idillio della storia d’amore. A questo punto Peer incomincia a manifestare la sua vera natura: egocentrismo all’ennesima potenza. Il mondo deve ruotare attorno a lui, l’attenzione gli spetta. Rapisce Ingrid, la porta in montagna e ritorna a casa solo per il funerale della madre. Ma l’irrequietezza interna ha la maggiore e riparte il viaggio che lo porterà, tra l’altro anche in manicomio. Alla fine, poco prima di morire, incontra nuovamente Solveigh e, per breve tempo, è travolto dall’amore.
Eros e Tanatos con una punta di egocentrismo che prende il sopravvento e determina la vita dell’essere umano. E’ come se Stjin Celis volesse comunicare allo spettatore che la frenesia della vita moderna che esalta l’individualismo e l’autorealizzazione di se, porta ad un’aridità di sentimenti ad una vita che non viene vissuta con la coscienza dell’attimo e con gli affetti relativi, ma che travolge l’essere umani, radendo al suolo ed eliminando i cari e gli affetti. La visione della vita è quella di un circo perenne (degni di menzione i costumi creati da Catherine Voeffray): anche i momenti più importanti, più seri e funerei, diventano parte di un grande spettacolo che ne scandisce i tempi.
Le coreografie leggere, spumeggianti, in parte scalate ed asincrone, riproponevano le sfaccettature della vita e rispecchiavano con estrema chiarezza il carattere dei personaggi: Cosa dire della Morte, interpretata da Ramon A. John che gioca con l’essere umano, che l’accompagna e la segue lungo il percorso della propria vita? O dei troll, essere informi, naturali che hanno come riferimento i bisogni primordiali?
La vera sfida, tuttavia, è stata per tutti i protagonisti, di riuscire a trasmettere e rendere credibile non solo il cambio di luogo, ma anche il lasso temporale che trascorreva e che segnava la vita dei protagonisti. Sfida gestita con bravura, dato che gli spettatori se ne sono andati con la certezza di aver visto la “storia di una vita”.
Pensare che Ibsen ritenesse la storia “comprensibile solo per i popoli scandinavi” e non fruibile per il resto del mondo. A oltre un secolo dalla sua stesura, la storia di Peer non solo rimane attuale, ma ricorda anche come l’uomo spesso, a volte di vivere, viene vissuto.
Un’ottima partenza del nuovo coreografo del Teatro di Saarbrücken che ha dimostrato professionalità, intelligenza ed occhio per la gestione delle parti.
Abbiamo incontrato Francesco Vecchione, interprete di Peer Gynt, per scoprire qualcosa in più sul suo ruolo.
Conoscevi la il personaggio di Peer Gynt prima di interpretarne la figura nel balletto di Stjin Celis?
Devo ammettere di sì. Al liceo avevo una professoressa di latino che adorava il romanzo di Peer Gynt. Fu lei che ci fece studiare il libro, in particolare alcune parti, come la morte della madre. Il personaggio non mi era quindi completamente sconosciuto. Dovendolo ora interpretare però, ho dedicato un po’ più di tempo, miratamente allo studio del personaggio che molla tutto e parte alla scoperta del mondo.
Quali sono le emozioni che si ritrovano in Peer Gynt?
Sicuramente c’è molto egoismo. L’egoismo è il sentimento che porta Peer a partire e crea in lui il desiderio di voler regnare su tutto il mondo. Nemmeno l’amore che prova per la donna che incontra lungo il suo percorso lo porta a cambiare: le necessità personali sono per Peer sempre al primo posto.
Non è un personaggio a cui il pubblico normalmente vuole bene: è troppo egocentrico per riscuotere le simpatie. Personalmente penso che, in fin dei conti, è un personaggio che ti fa un po’ pena perché si è autodistrutto a causa del suo egoismo.
Solveigh, invece, è una ragazzina giovane e pura, incarnazione del bene e dell’amore puro.
Verso la fine l’amore fa capolino in scena, seppure il maniera fugace: Peer, prima di morire è di nuovo con lei e, per quel breve tempo, l’egoismo scompare dalla sua vita.
Che sfide personali hai avuto nell’interpretazione di questo personaggio un po’ controverso?
Premesso che sono in scena tutto il tempo ritengo però che la sfida principale sia quella di riuscire a trasmettere il passaggio temporale della storia che a volte ricoprono archi di 5-10 anni. C’è per esempio la scena in cui Peer è nella clinica psichiatrica e nella scena successiva si trova nella nave nel viaggio verso casa. È proprio la creazione della transizione, necessaria perché non puoi pretendere che lo spettatore segua la storia per più di 90 minuti, in cui devi creare il cambio con uno sguardo, un atteggiamento o un costume che rappresenta la vera sfida. È responsabilità del ballerino far capire al pubblico questo passaggio e che si tratta di due momenti ben distinti. Lo stesso avviene con i costumi: lo spettatore deve poter capire quando Peer passa dalla ricchezza alla povertà e viceversa.
È la storia di una vita che deve essere riassunta in maniera semplice e fluida.
Sei contento di interpretare questo personaggio?
Molto. Durante la preparazione sono state sondate le simmetrie e gli affiatamenti dei diversi ballerini e sapevo che con Stijn il lavoro sarebbe stato intenso e interessante e sicuramente ricco di esperienze. E c’ho azzeccato su tutta la linea.
Elisa Cutullè