Intervista alla regista Vivien Hewitt

 

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> Tantissimi anni di carriera legati alla musica e all’opera; ma come è stato il suo ingresso in questo mondo, cosa o chi l’ha avvicinata al melodramma?


Mia madre e nonno, che era un pianista bravissimo, mi hanno portato all’operetta fin da piccolina e a 14 anni sono rimasta folgorata da Carmen, la mia prima esperienza di opera, al Grand Opera House di Belfast. Però c’erano tante cose nella regia e la produzione che non mi piacevano. Pensavo: “lo farei diversamente”. A 17 anni disegnavo e realizzavo costumi e a 20 anni ho fatto la mia prima regia,” L’orso” di Checkhov. Recitavo in spettacoli di prosa e poi a 22 anni ho messo in scena un’opera di Mozart per Belfast Festival. Ho lavorato come assistente a Wexford Festival, Northern Ireland Opera Trust e Opera Barga. Poi vinto borse di studio per studiare storia dell’opera all’Istituto di Studi Verdiani e a Roma e ho approdato al Festival Pucciniano nell’epoca di Bussotti: era un periodo bellissima.
> Quali riflessioni l’accompagnano quando le viene affidata la regia di un’opera? Come si approccia a questo non facile lavoro di lettura-rilettura-creazione di uno spettacolo lirico?


Primo studio la musica e il testo e il processo creativo del compositore e i suoi librettisti: studio l’epoca in cui l’opera è stato creato è quello in cui è ambientato e l’arte figurativo che ne gira intorno. È un lavoro scientifico di ricerca che diventa liberatorio alla fine. Ci si cala nei panni dei creativi e gli interpreti e la regia nasce poi spontanea molto legato alla recitazione e, spero, alla volontà del compositore.


> Verdi o Puccini? Eroismo e forza o passione e lacrime?


Sono artisti profondamente diversi e altrettanto validi. Il Nabucco di Verdi mi ha accompagnato attraverso i giorni più bui del terrorismo in Irlanda del Nord come una forza salvifica. La Boheme l’ho amato facendo l’attrezzista a 18 anni perché  sentivo come se l’umanità di quella  musica mi penetrasse ogni cellula del corpo. Falstaff è una delle opere che più mi piacerebbe fare, insieme ovviamente a Manon Lescaut. Nascono assieme nello stesso anno e non vorrei mai dover scegliere quale preferirei. Amo poi Bellini, Mozart e le opere del primo barocco di Monteverdi e Cavalli che paradossalmente si fanno così poco in Italia.


> Giovane regista ha avuto l’opportunità di confrontarsi con i grandi registi del passato: cosa le è rimasto del loro modo di fare regia e quanto nel ha preso poi le distanze?


Ho fatto pochissimo l’assistente perché preferiva creare per conto mio alternando la regia con lo studio della storia del teatro. Ho ammirato e ammiro moltissimo Franco Zeffirelli che mi ha folgorato con il film di Romeo e Giulietta e Fratello Sole sorella Luna  e l’indimenticabile Tosca di Covent Garden che ho visto a 17 anni: bellissimi spettacoli vistosi, ricchi anche di interpretazione di umanità. visconti mi ha molto influenzato per la tensione drammatica e la perfetta economia teatrale dei suoi film e delle sue messe in scena. Strehler per Mozart è perfetto. Si impara sempre dagli altri ma alla fine si deve ascoltare la musica e le parole e ascoltare il proprio cuore, fidandosi del istinto e della conoscenza. Il mio modo di fare regia, come quello di questi grandi, nasce da dentro la musica, la parola e il contesto e non da una speculazione intellettuale avulsa dal contenuto.


> Nei suoi innumerevoli allestimenti in giro per il mondo, ha avuto modo di conoscere grandi interpreti internazionali e giovani promesse che poi si sono rivelate “cavali di razza”: può ricordarci qualche nome e qualche episodio a cui è particolarmente legata?


Ho fatto un fantastico Luis Lima in Don Carlos a Montevideo che faceva esercizi di palestra sul palcoscenico in costume del 1500 durante la prova generale. Erwin Schott, un meraviglioso Timur in Turandot a 23 anni a Montevideo e Porto Alegre che andava con noi a prendere un caffè tutti giorni al Caffè dell’opera ed era radioso quando Domingo l’ha preso in considerazione. Massimo Cavaletti, oggi a La Scala e il Met, un fantastico 19 enne Marco in Gianni Schicchi a Bagni di Lucca dove i cantanti dormivano su brande nella scuola locale. Arricchiscono rapporti con Grandi interpreti e per fortuna ne ho conosciuto tanti, inclusa la Donata D’Annunzio Lombardi di questa Butterfly che porta un approccio scientifico allo studio vocale. Mi ricordo un giorno quando ero giovanissima assistente alla regia al grande baritono Rolando Panerai e mi ha accusato di essere “autoritaria”. Mi ha insegnato a cercare la sinergia con gli artisti anziché imporre le idee.
Carlo Cigni, Serena Farnocchia, MariaLuigia Borsi e Gabriele Viviani, Alessandro Luongo, Giorgio Berrigi tutti meravigliosi toscani con carriere internazionali, sono stati artisti ospiti di miei concerti a Celle Puccini e Lucca e ne sono fiera.


> Butterfly resta, a mio avviso, tra le opere che Puccini ha più amato: per lei cosa ha rappresentato questo incontro con una giovane quindicenne innamorata del sogno di essere “sposa americana”?


C’è un evidente conflitto drammatico che nasce dal fra due persone con culture diverse che è un tema attualissima in un’epoca di globalizzazione. Ma trovo significativa che Puccini sia stato folgorato da un dramma Kabuki “il samurai e la geisha” con Sadda Jaco nei panni di una geisha di origine nobile amante di un samurai Lui la abbandona per sposare una giovane nobildonna e la geisha impazzisce di dolore, uccide la rivale e poi si suicida. Insomma, l’amore è universale come pure il tradimento e durane la composizione dell’opera Puccini sperimentava una relazione devastante con una minorenne che ha tradito lui, e si sente. L’autore è Pinkerton e Butterfly contemporaneamente come tutti noi.

 

Stefano Mecenate

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