TORRE DEL LAGO (LU) – 61° FESTIVAL PUCCINI – DALLA CINA CON… AMORE: UNA TURANDOT “MADE IN CHINA” INCANTA IL PUBBLICO DEL FESTIVAL PUCCINIANO

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Si è chiusa anche questa tormentata 61° edizione del Festival Puccini accompagnata, fin dall’inizio stagione, da una ridda di polemiche mai sopite: non è ancora tempo di bilanci, ma certamente merita ricordare un momento che ha restituito a questa prestigiosa kermesse estiva un ruolo centrale nella lirica nazionale almeno per la musica pucciniana.

Da tempo sosteniamo la necessità da parte di questo Festival, di ospitare le migliori produzioni pucciniane provenienti da tutto il mondo come omaggio al Maestro che ha trascorso proprio in questi luoghi i suoi momenti più belli e le cui spoglie mortali sono ospitati nella sua villa prospiciente il lago.

Un modo per segnare il valore e il prestigio di questo teatro e per confermare quella valenza di luogo d’incontro delle molteplici letture che vengono date alle opere di Puccini.

Quest’anno, a conclusione della stagione, dalla Cina e più propriamente dalla China National Opera House di Pechino, ci giunge una produzione mozzafiato che ha lasciato di stucco il pubblico presente nel Gran teatro di Torre del Lago.

Decisamente colti di sorpresa non solo dalla sontuosità delle scenografie, progettate da Ma Lianquing, ma anche e forse sopratutto dalle voci dell’intero cast sulle quali sovrasta d’oltre una spanna quella del tenore Li Shuang, un Calaf che incanta per la potenza vocale e per la capacità di trasmettere, nonostante le difficoltà della lingua, tutta la grandezza della partitura pucciniana, il pubblico ha sommerso di applausi l’intero cast durante lo svolgimento dell’opera fino a travolgerli nella ribalta finale che li ha tenuti a lungo sul palco.

Ma andiamo con ordine cercando di ricostruire l’atmosfera che ha preceduto l’opera e lo svolgimento dell’opera stessa. Alla presenza delle autorità cinesi presenti, il vice sindaco e assessore alla cultura del Comune di Viareggio, Rossella Martina, e il Presidente della Fondazione Festival Puccini, Alberto Veronesi, hanno espresso la soddisfazione per questo appuntamento con la cultura cinese che incontra la musica occidentale e quella di Puccini attraverso un’opera, com’è la Turandot, che racconta, con l’occhio occidentale, una favola orientale.

Del resto, la Fondazione Festival Pucciniano aveva già aperto le sue porte alla Cina, sia attraverso dei corsi Accademici dedicati a cantanti cinesi, sia con la collaborazione nella realizzazione di una Turandot con un finale “cinese” realizzato dal giovane Hao Weija e andata in scena il 21 marzo 2008 al Grand Theatre di Beijing – Ncpa (National Center for the Performings Arts);

Oltre 200 tra artisti e tecnici si sono mossi da Pechino per dar vita a questa produzione che ha davvero dello spettacolare: scene grandiose e al tempo stesso delicatissime in quel mix che solo l’oriente sa dare nelle sue manifestazioni; un coro che, dopo un primo momento di difficoltà, ha ritrovato l’equilibrio e la bellezza offrendo una decisamente positiva prova delle loro capacità; un cast che, anche nei ruoli minori, ha dimostrato di possedere i requisiti necessari per ambire ad una “internazionalità” pur se penalizzati nella pronuncia; un’orchestra preparata e disciplinata sotto la ferrea guida del M° Yu Feng che, in qualità di Presidente, direttore artistico e principale direttore d’orchestra del Teatro dell’Opera Nazionale Cinese di Pechino (CNOH, ovvero China National Opera House of Beijing), ente fondato nel 1952 che dipende direttamente dal Ministero della Cultura, ha avuto di fatto un controllo totale su ogni elemento e dettaglio dello spettacolo.

Insomma, una “macchina da guerra” in grande stile che ha dato, in qualche modo, una “lezione” a certe approssimazioni alle quali siamo ormai abituati non solo in questo teatro ma anche in altre prestigiose sedi non estive.

Quello che colpisce è la cura dei dettagli: nulla è lasciato al caso, nulla è messo lì tanto per riempire; del resto, quella favola che Puccini aveva trovato suggestiva e coinvolgente, è così piena di simbologie da meritare una lettura attenta e rispettosa senza quelle “trasgressioni” che certi registi amano inserire per darsi un tono.

Ottimi i costumi, pertinenti, eleganti e sobri al tempo stesso, opera di Zhoo Yan; buono ed efficace il disegno luci di Zhou Zhengping che ha sapientemente sottolineato i momenti portanti dell’opera dando alle scene una ulteriore rilevanza. A proposito delle scene, non possiamo esimerci dal rilevare come la dolcezza sia una delle cifre significative di questa produzione: come non ricordare la scena dell’inizio del secondo atto, quando, le nostalgie dei tre mandarini prendono vita dietro il pannello che, tasfigurandosi e illuminandosi, diviene quel “laghetto blu” dove Ping vorrebbe ritornare “… E potrei tornar laggiù, presso il mio laghetto blu, tutto cinto di bambù…”. Ed ecco che la suggestione di quei tre uomini di potere che tornano ad essere solo uomini ” Pong : Ho foreste, presso Tsiang, che più belle non c’è ne, che non hanno ombra per me; Pang: Ho un giardino, presso Kiu, che lasciai per venir qui, e che non rivedrò, non rivedrò mai più, mai più!” trova in quell’immagine un riscontro meraviglioso ed emozionante.

Una regia sobria ma convincente in ogni sua parte, affidata all’esperta mano di Wang Huquan, accompagna i cantanti dentro questa storia facendoli veri attori; niente “effetti speciali” ma una coerenza ed una attenzione al dettaglio e alla storia rendono più che piacevole la visione.

In quanto alle voci, fatti i dovuti distinguo, appare evidente un livello decisamente alto per tutti i personaggi, maggiori e minori, segno di un grande rispetto anche per quei ruoli dove, ahimè, spesso, ci si accontenta di mettere “quel che sitrova”.

Ottimi i tre mandarini Ping, Pang, Pong interpretati da Tion Hao, Liu Yiran e Geng Zhe: quest’ultimo in particolare mostra un’emissione sul fiato morbida e fluida ed una grande capacità interpetativa; buona la performance di Tian Hao (Timur), l’unico a non sbagliare le doppie consonanti, mentre Wang Haimin ha dato vita e voce ad un’imperatore Altoum più vigoroso del solito. Qualche debolezza nelle due voci femminili: Yao Hong è stata una Liù di grande passione che, se talvolta ha mostrato incertezze, è probabile sia stata tradita dall’emozione piuttosto che da deficit vocali.

Qualche problema in più, specie nella prima parte, per Wang Wei nel non facile ruolo della Principessa di gelo su questo palcoscenico interpretato negli anni da giganti come Giovanna Casolla, Ghena Dimitrova, Montserrat Caballe…

La sua voce, non certo potente, ha subito alcune fragilità in momenti topici ma via via si è fatta più sicura fino a conquistare meritatamente il pubblico.

Chi è partito subito “alla grande” senza mai retrocedere di un millimetro è il tenore Li Shuang, un eccezionale Calaf che ha mostrato voce potente, rotonda e gradevole, suono libero e soprattutto un registro acuto molto facile ed una teatralità di tutto rispetto. Dire che ha conquistato da subito il pubblico è un eufemismo: per lui gli applausi non finivano mai e solo per una certa, e incomprensibile, “fretta” del direttore d’orchestra è mancato un meritato bis al “Nessun dorma” padroneggiato da grande della lirica.

Una lezione da tutto questo, o forse solo un invito: occorre rieducare il pubblico al “bello” perché questa operazione più o meno diffusa di “mediocrizzazione” dello spettacolo (lirica e prosa) non giova ad un Paese come il nostro dove cultura ed arte dovrebbero essere gli imprescindibili punti di forza dell’immagine e della economia.

 

Stefano Mecenate

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