Peppe Voltarelli e il suo caciocavallo di bronzo

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Attore, cantante e scrittore, Peppe Voltarelli ha da poco pubblicato il suo romanzo “Il caciocavallo di bronzo” e l’ha presentato a Lussemburgo lo scorso Dicembre.

Il libro parla di un paese immaginario, i cui abitanti vogliono costruire un monumento al caciocavallo. L’opera d’arte dovrebbe simboleggiare la storia di un popolo e cantare la sua rivincita. Non succede in Calabria, bensì in terre lontane come la Germania, Parigi o l’Argentina.

Il “romanzo cantato e suonato”, come viene definito nel sottotitolo presenta uan forma diversa della calabresità: una moda.

Come è nata l’idea per questo libro, senza punteggiatura alcuna?

Il libro nasce da un rapporto personale con la scrittura che porto avanti da diversi anni,  sia attraverso la scrittura dei testi delle canzoni che attraverso la scrittura in se stessa. Qualche anni fa uscì, per Del Vecchio Editore, una raccolta di racconti dal titolo “Non finito calabrese”, all’epoca all’intero di una serie di racconti di musicisti.  Nello specifico questo libro è stato il frutto di un’idea ben precisa e cioè quella di fare una specie di mappa che mi permettesse di ricostruire un’idea della mia terra, partendo dalle mie esperienze personali, dalle mie intuizioni e dalla libertà delle mie visioni. Volevo che il tutto fosse sganciato dall’idea del lamento meridionalista, dagli stereotipi e dall’ossessione del turismo e che mi servisse, in un certo qual modo, a pagare un conto personale al mio rapporto con la mia terra, perché sentivo che le canzoni non erano sufficienti. Mettendo per iscritto  i miei sentimenti collegati alla mia terra, mi ha permesso di avere la possibilità di guardarli con una certa distanza. Posso dire che, con questo libro, posso ammettere che, per il momento, il conto con la mia terra è saldato.

 

Diverse volte, nel libro, parli del continente per riferirti al resto dell’Italia, come mai?

L’idea di Calabria prescinde dai confini geografici. È uno status mentale che probabilmente, fa sì che ci sente più distanti da tutto. Non è un semplice fatto istituzionale o un fatto geografico: è una condizione dello spirito, per cui guardare il resto del mondo del mondo dal punto di vista di un  provinciale, senza vergognarsi del fatto di essere provinciale. In Italia non esistono  molte vere “città”; forse ce ne saranno 4 o cinque. Per il resto direi che si tratta di grandi paesi.

Ciò si riflette anche quando un provinciale va all’estero; si ragiona da paesano e non da cittadino. L’esodo continuo che c’è dalla nostra terra, ci ha come messi nelle condizioni di fuggire dal nostro paese, che nel libro io definisco “come una squadra che gioca sempre in trasferta”. Non è da intendersi tuttavia negativamente: questo mi ha permesso di avere con i luoghi un atteggiamento  di grande apertura. La paesanità, nella sua essenza, io la vedo più come un valore che come un limite perché ti permette di avvicinarti alle cose in maniera più aperta, serena e tranquilla.

 

E allora che ruolo ricoprono l’uniformità e l’unità?

Non so se vi riferiate alla divisa di cui parlo nel libro. La divisa, per me, è una forma di comunicazione non verbale. Quando andavo alle scuole elementari e alle medie i professori ci facevano sempre indossare la tuta blu, e tutti avevamo la stessa tuta. Parlo degli anni fine anni 70 inizio anni 80 in cui, ancora, non esisteva la miriade di tessuti, tra cui quelli elasticizzati. Magari chi è della mia età se le ricorda quelle tute fumanti con un odore abbastanza forte.

L’uniformità limita la caratterizzazione. Il fatto di essere un rocker mi differenziava, per esempio, dal resto della classe che avevano tutti un paio di Levis 501, le scarpe della stessa marca e le giacche pure. Differenziarmi per me significava comunicare la mia identità, ribaltare il concetto e mettermi in evidenza.

Anche oggi io ho la mia “divisa” personale: è un misto tra gli insegnamenti di mia madre di mettermi sempre la giacca quando vado in un posto (per la famosa prima impressione), che ho trasposto però nel cercare giacche che non indosserebbero i lattugoni.  Per la mia carriera, la divisa, per come la intendo io, mi è servita molto per far capire agli altri che io ero italiano e un musicista (quindi ho maggiori libertà dei lattugoni). Quando siamo andati al Tribeca Film Festival io mi sono vestito esattamente come ero vestito nel film, e quando siamo andati  a prendere il badge gli altri, pur non conoscendoci personalmente, hanno riconosciuto il fatto che noi eravamo artisti. Questo per un musicista è importante perché rappresenta un altro aspetto comunicativo che si aggiunge alle parole e alla musica.

Quando vado a suonare la gente spesso fotografa le scarpe. Lo rovo interessantissimo perché è quasi come se non ci fosse differenza tra la faccia e le scarpe. Una scarpa, o meglio il suo colore, può raccontare da sola una canzone. Alla fine è un gioco, un modo per giocare con se stessi.

 

Peppe Voltarelli nel 2015 sarà in concerto in Germania per presentare il suo ultimo lavoro “Lamentarsi come ipotesi”.

21/01/2014   Amburgo (DE) – Istituto Italiano di Cultura
23/01/2015   Berlino (DE) – Grüner Salon
24/01/2015   Magdeburg (DE) – Moritzhof
28/01/2015   Francoforte (DE) – Roman Fabrik
30/01/2015   Colonia (DE) – Mondoaperto

 

Elisa Cutullè

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